lunedì 27 aprile 2020

Odio gli indifferenti


di Antonio Gramsci










Antonio Gramsci

Odio gli indifferenti
di Antonio Gramsci


Articolo apparso nel febbraio del 1917 sul numero unico della rivista "La città futura" che Antonio Gramsci dedicò alla gioventù devastata dalla grande guerra.




Odio gli indifferenti.
Credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare.Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita.Perciò odio gli indifferenti.
L’indifferenza è il peso morto della storia.
E’ la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica.
L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera.
E’ la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all’intelligenza e la strozza.
Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare.
La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo.
Dei fatti maturano nell’ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. I destini di un’epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa.
Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell’ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente.
E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile.
Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch’io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo?
Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano.
I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità.
E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti.
Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere.
Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti.
Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto.
E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.
Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo.
E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini.
Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l’attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento.
Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.

venerdì 24 aprile 2020

Su zovanu partigianu


Su zovanu partigianu, un sonetto di Franco Sotgiu





Dante di Nanni da "Senza tregua. La guerra dei GAP"

Dal libro di Giovanni Pesce “Senza tregua. La guerra dei GAP” (Feltrinelli 1967 
 ristampato nel 2005) 

Dante di Nanni



Capitolo sesto Morte e trasfigurazione 


Radio Londra. Come ogni notte, la voce del colonnello Stevens si fa strada a fatica, tra fischi strazianti e continuo grattare. Le parole escono monche dall'apparecchio, spesso incomprensibili; ora lontanissime, ora poco piú vicine, sempre confuse dalle onde disturbatrici. É cosí ogni sera. Ma, all'improvviso, quella notte di maggio, pare che il colonnello sia lí accanto: di scatto la sua voce giunge chiara e indisturbata alla gente raccolta in silenzio attorno alla radio, nelle stanze buie. Istintivamente qualcuno abbassa il volume. Anche sussurrate, ora le frasi sono perfettamente comprensibili. In quel momento a Torino quattro ombre avanzano lungo la riva destra dello Stura. Cento tedeschi, dall'alto del ponte della strada per Milano, sparano ai quattro uomini che i riflettori, manovrati con orgasmo dai genieri, inquadrano e perdono. Le ombre si dirigono verso il ponte, poiché l'unica via di salvezza sta alle spalle dei tedeschi. A pochi metri dallo sbarramento, i quattro aprono anch'essi il fuoco. La reazione improvvisa sconcerta il nemico. Si apre un piccolo varco e i quattro passano. Subito, però, alle loro spalle tornano a splendere gli occhi accecanti dei riflettori e la sparatoria riprende violenta. Dal posto di blocco, l'allarme viene lanciato al comando tedesco di Torino che invia prontamente rinforzi. Il combattimento ineguale sembra non finire mai. Uno dei quattro cade, e da terra continua a sparare. Poi è colpito il secondo. Al terzo e al quarto tocca poco più tardi. Tutto questo, quanti ascoltano Radio Londra, dalla voce fattasi all'improvviso cosí limpida in quella notte di maggio, non lo sanno. Molti l'apprenderanno qualche anno dopo. Altri lo ignorano ancora oggi. Quella notte, poco prima dello scontro dello Stura, un rapido susseguirsi di tremende esplosioni a trecento metri dal ponte manda in pezzi la stazione radio, abbattendo le grandi antenne da cui, per mesi e mesi erano partiti i fischi strazianti e il rauco gracchiare che aveva impedito agli italiani di intendere pienamente il quotidiano messaggio di solidarietà del colonnello Stevens. Tutto è cominciato quindici giorni prima, agli inizi di maggio, quando Ivaldi si reca all'appuntamento settimanale con il responsabile delle brigate garibaldine del Piemonte. Come sempre, l'incontro all'angolo di una piazza sembra casuale. Si salutano e cominciano a camminare sotto il sole che già annuncia l'estate. "L'ordine è di far saltare la stazione radio." Il responsabile militare potrebbe dire con lo stesso tono: andiamo a fare una passeggiata. "Quale stazione radio?" "Quella che disturba radio Londra. È vicina alla strada per Milano, a pochi passi dal fiume." Camminano ancora un poco per non dare nell'occhio; poi si separano. Ivaldi attraversa tutta la città a piedi per tornare a casa. Non è proprio la sua casa. Dorme lì, ma non è casa sua. Ci viene altra gente, di tanto in tanto: staffette con i messaggi e qualche compagno che deve entrare nella brigata. I due locali servono anche da deposito di armi e di esplosivo. Ivaldi non ha una casa, non l'ha più avuta da quando, otto anni prima, ha lasciato la madre e i fratelli ed è partito per Perpignano. Neppure in Spagna ha avuto una casa. Gli è capitato di dormire in trincea, sotto la pioggia e — molto piú raramente — in lussuose stanze di grandi alberghi requisiti dall'esercito repubblicano. Mai ha avuto un letto suo. Sul fronte di Madrid aveva dormito per molti mesi sotto un albero


 senza provare alcun disagio. A quel tempo, Ivaldi era ancora ragazzo: nelle brigate internazionali lo avevano arruolato perché aveva mentito sulla propria età all'ufficiale che Io interrogava. Gli anni passati nei pozzi di carbone, alla Grand Combe, lo avevano indurito e fatto crescere alla svelta. "Nei pozzi uno diventa uomo in metà tempo," diceva suo padre. "Manda un bamboccio in miniera e a tredici anni saprà tutto quello che c'è da sapere." "La miniera è come la guerra e la carestia," diceva ancora suo padre. "Chi la prova impara presto." Il giorno che lasciò la Grand Combe, era pronto a giurare che non aveva altro da conoscere. In Spagna, a Madrid, a Guadalajara, dovette ammettere che stava ancora imparando. Quando cadde la Repubblica, mentre si trascinava verso il confine francese, era certo di aver ormai provato tutto quello che un uomo poteva provare. A Torino, nel 1944, sta di nuovo imparando. Ed ora deve apprendere al più presto a sabotare una stazione radio. E una cosa difficile, la più difficile che abbia mai fatto. Si distende sul letto e comincia a guardare le macchie di umido del soffitto. A fissarle per un pò, le macchie si trasformano. Quella grande nell'angolo diventa Casa del Campo, come l'aveva vista la prima volta, dopo la grande curva della strada polverosa, con gli edifici che di lontano sembrano vecchi e vuoti. E invece non erano vecchi, avevano mura robuste, come fortezze. E non erano vuoti. Dentro c'erano i franchisti che li aspettavano. Quell'altra macchia, quella lunga e contorta che taglia in due il soffitto, può diventare una strada; la strada di Jarama su cui caricavano i marocchini e lui, rimasto quasi solo, sparava con la mitragliatrice; i cavalli cadevano facendo scoppiare la polvere e i mori dal mantello rosso cadevano urlando sopra i cavalli e ancora i cavalli impazziti sopra i mori, così fino a riempire la strada; allora i superstiti ripiegavano al galoppo e lui che sparava, sparava, sparava senza badare all'acqua del raffreddamento che bolliva. Non ha senso quel soffitto: Jarama, Huesca, Madrid non erano Torino. Qui tutto è diverso. Qui non ci sono né fronte, né retrovie da cui possano giungere rinforzi. In Spagna si poteva anche ripiegare, attendere un momento migliore, se l'attacco falliva. Qui, anche se l'azione ha successo, non ci può essere tregua; bisogna predisporre insieme attacco e ritirata, mettersi in salvo per essere vivi domani, per ricominciare. E continuare così, affinché possano tornare, chissà quando, i giorni di lavoro, i giorni di studio, i giorni delle passeggiate. Ora sono i giorni della guerra: una guerra fatta di colpi audaci e improvvisi, di attacchi e di fughe in mezzo a una piazza, davanti a una caserma, nella sala di aspetto di una stazione, in un deposito, lungo le autostrade o le ferrovie. Questa volta si tratta di una stazione radio che deve venir distrutta affinché non disturbi la voce di uno sconosciuto che arriva da un'altra stazione radio oltre la Manica. Il giorno dopo Ivaldi non ha ancora deciso niente. Ha smesso di guardare le macchie del soffitto, non è più sdraiato sul letto, ma non ha ancora deciso niente. Non riesce a trovare un modo logico per coprire la ritirata, dopo l'azione, a sé e agli altri. Già è difficile prevedere se ci sarà tempo sufficiente per piazzare l'esplosivo attorno alla palazzina dei congegni e sotto le tre antenne giganti. Il posto è isolato; questo non rappresenta certo un vantaggio per chi voglia avvicinarsi. Il


terreno irregolare della brughiera si dovrebbe percorrere trascinando dietro pacchi di plastico, armi, munizioni. Poi, c'è la sentinella da neutralizzare, prima che possa lanciare un richiamo o sparare un colpo, in modo da sorprendere gli altri nel sonno. Perché ce ne sarebbero stati altri, dentro la palazzina, Ivaldi ne è certo, solo non sa quanti. Non si può far saltare una stazione radio restando seduti davanti a una finestra aperta, a fantasticare. Ivaldi non lascia la casa da due giorni. Si sente come vuoto dentro e indifeso; le quattro pareti della stanza gli danno un caldo senso di protezione. Dalla via stretta giungono alla finestra del secondo piano pochi rumori; la gente non si trattiene a lungo per le strade, dove incombe sempre il pericolo delle retate improvvise. Nel silenzio può immaginare la guerra come un lontano ricordo, un mondo di pace in cui la gente è libera di parlare, viaggiare, vivere senza l'angoscia del colpo improvviso alla porta, dell'incontro mortale per la via. Senza la guerra un uomo può lavorare, studiare, sposarsi, costruire qualcosa che valga la pena. È la medesima angoscia di quando, ragazzo, si svegliava, le mattine di scuola, nella sua casa di Visone. Fuori c'era odore d'estate e dalla finestra si vedevano i vigneti allineati sulla collina. Anche allora avrebbe voluto essere in un altro posto, un posto senza scuole e senza maestri. Entrando nell'aula già pensava al dopo, all'interrogazione finita; si vedeva correre verso casa, la cartella di fibra rigida che saltava sulle spalle e i quaderni dentro che sbattevano ad ogni passo. Anche allora le fantasie svanivano quando il maestro pronunciava il suo nome e gli toccava rispondere. Adesso è la stessa cosa. Pensare al dopo non serve a niente, perché la realtà è prima, non dopo. E prima, vuol dire che la stazione radio è ancora in piedi. In ogni città e in ogni paese c'è tanta gente con quella paura dell'oggi addosso; è per questo che ancora si parla di libertà soltanto sottovoce e nel chiuso delle case. Chi non ha questa paura addosso è un "eroe." Ma in realtà "eroismo" è una parola buona soltanto per i libri, impiegata da gente che con l'eroismo probabilmente non ha mai avuto niente a che fare. Nella realtà la gente ha paura: paura di soffrire, paura di morire, perché ognuno vuole sopravvivere a un periodo duro come questo, per essere vivo dopo, quando tutto sarà finito e ci saranno cose buone da fare, per il paese, per il partito, per se stessi. Anche in miniera nel momento della frana, aveva avuto paura. Mentre le travi si spaccavano, prima con un leggero scricchiolio e poi cedendo di schianto, non era riuscito a correre; vedeva i pezzi di carbone piombargli addosso sollevando una polvere densa e nera che soffocava la piccola lampada rimasta accesa. Ma non si muoveva, non poteva muoversi perché non riusciva a pensare. Quando la squadra di soccorso lo ritrovò, quando lo portarono fuori, qualcuno disse che si era salvato perché non si era mosso; cinque passi più in là sarebbe rimasto schiacciato da dieci tonnellate di roccia. Era un caso, ma il fatto che quella volta fosse andata così non è certo una ragione per aspettare senza far nulla. In piazza della Repubblica, infatti, si salva proprio perché agisce pensando a quello che deve fare. Vede ancora i due ufficiali delle SS(1) cadere proprio davanti ai tavolini con le tovaglie gialle dei bar, e lui, ancora in pugno le pistole scariche, correre verso la strada sulla sinistra;


sente i colpi delle machine-pistole che arrivano da un camion fermo; l'istinto lo spinge a fuggire, ma allora lo coglieranno allo scoperto, nella via aperta e diritta. Si ferma e si butta a terra dietro l'angolo dell'edificio, cambia un caricatore e spara al primo tedesco che giunge ansimando all'imboccatura della via, e poi al secondo, e poi al terzo, che ruota su se stesso, gridando. Questa era la via giusta: pensare prima di agire e agire pensando. Tre giorni dopo l'incontro con Colombi Ivaldi esce di primo mattino. Si ferma sul gradino del portone e getta un'occhiata alla via a destra e a sinistra, per prudenza. L'ortolana sta esponendo sul marciapiedi una cesta di verdura. Lo saluta e lui risponde sorridendo. L'incontro con un volto noto gli fa piacere. Il camminare poi nella strada, tra la gente frettolosa che si reca in fabbrica, cancella ogni residuo timore. All'angolo di una via incontra la prima pattuglia: italiani in divisa di SS. Lo osservano e passa accanto a loro quasi tranquillo. Cammina mezz'ora. Poi, seguendo un complicato percorso, osservando a ogni angolo che nessuno lo segua, raggiunge la sua meta; sale due scale e bussa alla seconda porta. Di Nanni è ancora a letto. Si leva subito quando la madre annuncia l'arrivo di Ivaldi. Entra in cucina posando i piedi nudi sulle piastrelle fredde, ancora umide dello straccio appena passatovi. Dalle maniche corte della maglia gli escono due braccia lunghe e magre. Sorride mentre allaccia la cintura dei pantaloni. "Come stai? Non ti si vedeva da una settimana. Dov'eri? " "Qua e là." "Fuori Torino?" "No, a Torino." La madre capisce che deve lasciarli soli. C'è sempre qualche cosa di strano, di poco chiaro quando quell'uomo viene a cercare suo figlio. Dopo, ogni volta, Dante se ne esce, senza dire dove, e spesso la sera non torna a casa. Oppure esce con l'altro, senza parlare, senza dire quando rientrerà. A malincuore li lascia dunque soli, perché possano parlare. "Scendo alla posteria," dice. Appoggia la scopa ancora avvolta nello straccio umido nell'angolo del lavandino, si toglie il fazzoletto dal capo e esce, la borsa appesa al braccio. Di Nanni va alla porta e chiude a chiave, adagio. "Nel pomeriggio ci troviamo tutti alla casa," dice Ivaldi. Ivaldi parla rapidamente, come sempre, andando subito all'argomento, senza giri inutili di frasi. "Allora è molto difficile?" chiede Di Nanni. "Difficile." Dante non ha paura: a diciotto anni si sono persi i timori dell'infanzia e non si conoscono ancora quelli che l'esperienza porta inevitabilmente con sé, quando, con il trascorrere degli anni, la prudenza si va affermando. Non ha paura, pure ogni volta si sente irrigidire, come ora. Poi si rilasserà. Dopo però. Quando saprà tutto dell'azione in programma, quando ne parlerà e ogni cosa risulterà chiara; quando lui stesso, valutando il rischio, potrà studiare come evitarlo o ridurlo. Sapere cosa si vuole da lui gli può dare la possibilità di decidere come agire. E allora è come tornare padrone di se stesso, con una propria volontà e, soprattutto una propria capacità di azione. Prima no. Prima è come essere in trappola. E non gli piace sentirsi in trappola, non gli piace quel peso che lo ferma senza parole davanti a Ivaldi. "Allora, intesi: verso sera alla `casa'," ripete Ivaldi. E fino a sera, per tutte quelle ore, Dante si sentirà con quel gran vuoto nello stomaco, come un male, una angoscia che gli impedirà di fare qualsiasi cosa, la più banale, mangiare, bere, 


leggere. Come ogni volta, pensa di chiedere subito cosa ci sarà da fare; può porre la domanda fingendo indifferenza perché Ivaldi, il compagno che il partito aveva messo al comando dei gappisti, non capisca di trovarsi di fronte a un ragazzo con una grande ansietà dentro il petto. E, come ogni volta, non dice nulla. Si accorge appena che Ivaldi l'ha già lasciato. Non ricorda neppure se lo ha salutato. Torna nella stanza da letto e si guarda nello specchio dell'armadio di fronte alla porta. Parla a se stesso, sottovoce: "Qualunque cosa sia," dice, "deve essere fatta. Che poi tu lo sappia, non ha importanza. Deve essere fatta." Si squadra, basso, magro, il volto lungo, angoloso, la bocca tagliata dritta, i capelli scuri, folti e cerca di immaginare dove avrebbe potuto essere colpito da una pallottola. "Proprio come l'altra volta," continua a dirsi assorto, "quando attendevo in ansia l'ora per l'azione in Corso Francia." Pare assurdo attaccare il comando della milizia in pieno giorno. Invece alle 13,30 precise, lui, Bravin e Ivaldi distruggono con una bomba un'auto tedesca. Un maggiore della Wehrmacht, un capitano ed altri uccisi. Il governo promette un milione di taglia sui gappisti! Nella stanza, seduti attorno al tavolo, ci sono cinque persone. Ivaldi parla seguendo col dito la pianta della città. "Ci ritireremo risalendo lo Stura: se rischio di essere scoperti c'è, perché saranno in allarme, è un rischio che dobbiamo correre. D'altra parte non vedo altre vie d'uscita; se scendiamo lungo il corso del fiume tornando sui nostri passi, ci troveremmo addosso le pattuglie. Alle nostre spalle ci sono le caserme dei tedeschi e dei fascisti. Potremmo guadare il fiume e prendere verso est. Ma anche ammettendo il guado possibile, non avremmo più il modo di rientrare in città, poiché i ponti, dopo l'esplosione, saranno tutti sorvegliati; per di più dovremo abbandonare le armi in una zona che non conosciamo. Risalendo verso nord e tenendoci sulla sponda destra potremo invece tornare in città quando sarà ancora buio, e nessuno, ammesso che non ci scoprano quando passeremo sotto il ponte della strada per Milano, penserà che ci staremo ritirando seguendo proprio la direttrice che, a rigor di logica, sarebbe la più pericolosa." "Naturalmente," conclude Ivaldi, "questo è il mio parere. Qui siamo in cinque, qualcuno potrebbe avere un'idea migliore." "Per me va bene così," dice Valentino. "Se ci scoprono quelli sul ponte?" chiede Bravin. "Dovremo aprirci la strada sparando," dice Ivaldi. "Quanti saranno?" "Forse cinquanta, cento, forse di piú." "Ma noi non abbiamo armi e munizioni per una battaglia di questo genere!" "Ne prenderemo quante ce ne serviranno al presidio della stazione radio." Mario non parla. Si limita ad annuire, d'accordo anche lui. Non avrebbe partecipato all'azione conclusiva; il suo compito è di sorvegliare i movimenti del nemico e riferire per preparare l'attacco. E' come camminare in un grande catino dai bordi neri, tanto è buio: una parete scura tutt'intorno. Solo in alto, qua e là nel cielo, si possono scorgere le stelle. Hanno lasciato da poco la strada e subito si trovano in difficoltà a causa del terreno scosceso e accidentato. Camminano vicini, lentamente, cercando una traccia. Le armi e i pacchi di esplosivo preparati da Spada sono stati portati da Torino, un poco alla volta, da Ines e nascosti in un luogo segnato. Non bisogna sbagliare: deviare anche di pochi passi vuol dire, 


in quella brughiera senza sentieri, perdere tempo in giri affannosi e mandare tutto all'aria. "Ecco il primo segno," sussurra finalmente Ivaldi. "Ora pieghiamo un poco a destra per non finire in una buca che c'è poco avanti e cerchiamo una latta di benzina sfondata. Attenti a non sbatterle contro che farebbe un fracasso del diavolo!" Trovata la latta di benzina perdono mezz'ora alla ricerca di tre pietre; tornano piú volte sui loro passi, sino alla latta, riprendendo da lì le ricerche. Per un momento Ivaldi teme che durante il giorno qualcuno abbia spostato la latta e pensa che non riusciranno per quella notte a trovare l'esplosivo. Decide di riprovare, ancora una volta. Riprende a muoversi lentamente e, finalmente, sente il cespuglio sotto le mani tese in avanti: è lì a due passi. Muove il piede e tocca le pietre. "Ci siamo," dice, "è qui sotto." Si china spostando rami sottili e zolle d'erba e tira fuori il primo pacco, pesante, avvolto in una carta forte. "Sono le armi." Dal cespuglio toglie poi altri quattro pacchi, meno pesanti del primo. "Questo è l'esplosivo. Non è innescato, ma attenzione, non è per far saltare in aria noi." La carta dei pacchi è una carta rigida e robusta e nel silenzio, mentre viene svolta, pare che faccia un gran rumore. Ivaldi, in ginocchio, lavora lentamente. Non ci si vede quasi; sono le mani a decidere; ecco il nodo della corda e il capo più lungo da tirare; il nodo, semplice, si scioglie senza difficoltà, ecco il lembo esterno dell'avvolgimento da tenere fermo mentre si srotola il pacco; una pistola, lo "sten"; le altre pistole. Poi i pacchi dell'esplosivo. Di nuovo la maledetta carta. Alla fine Ivaldi raccoglie i fogli tutti insieme, ne fa una gran palla e la spinge a forza fra i rami del cespuglio. "Non avrei mai creduto che la carta facesse tanto rumore," osserva Bravin. Di Nanni ride piano: "sembrava d'essere all'officina." Ivaldi distribuisce le armi, un pacco di esplosivo a testa, i detonatori — capsule piccole, cilindriche, che in mano paiono contenitori per aghi — e le micce con l'accenditore a strappo già applicato a una delle estremità. Dalla parte del fiume viene improvviso il rombo di un motore di camion che si spegne subito; poi riprende, a tratti brevi, come una tosse. "È la loro benzina sintetica che non brucia," fa Di Nanni. "Va bene soltanto se il motore è caldo." "C'è movimento sul ponte," dice Valentino. "Attenzione." "Quelli non dormono," dice Di Nanni. Il motore smette di tossire e riprende a girare regolarmente, molto accelerato. Infine l'autocarro parte. Odono distintamente cambiare le marce. Le due strette lame di luce dei fanali illuminano brevemente la strada. Va verso Torino. Possono seguirne il rombo per alcuni minuti. Per tutto questo tempo non si muovono, non parlano, come se quel motore sia un motivo sufficiente per aspettare, per non decidere. Poi avanzano lenti, nel buio, sotto il peso dell'esplosivo. Non vedono la stazione radio, ma sanno che è davanti a loro, a meno di trecento metri. È ancora notte fatta. Hanno strisciato nell'erba bagnata per gli ultimi cinquanta metri e poi si sono arrestati, a terra, uno vicino all'altro. Nel buio i contorni della cabina appaiono incerti: a fissarli a lungo pare che attorno si muovano delle ombre: uomini o animali, più probabilmente un'illusione ottica. Ivaldi chiude gli occhi per un poco; quando li riapre l'ombra è svanita. Poi torna ad agitarsi davanti al suo sguardo. Chiude e riapre ancora gli occhi e si accorge che la macchia 


non svanisce; è proprio al centro della costruzione, là dove probabilmente deve esserci la porta. L'improvvisa luce di un fiammifero la illumina: la sentinella accende una sigaretta. Ivaldi può vederne il volto per un attimo, poi il punto luminoso si allontana dal viso, schizza via e si spegne nell'aria. Nello stesso momento la mano di un uomo in preda al panico afferra il suo braccio. Ivaldi la serra nella sua; stringe forte finché sente male. Quando il tremito della mano cessa, capisce che Valentino ha superato la crisi. Rimangono a terra, osservando la brace della sigaretta che si accende a tratti. Poi anche la brace schizza via perdendo qualche scintilla. Subito dopo nel profilo confuso della cabina si apre la porta. La luce azzurra di una porta schermata illumina l'erba. La sentinella entra e richiude l'uscio. "Ora," dice Ivaldi — e corre avanti, seguito dagli altri: urta con forza la porta e si meraviglia quasi sentendola aprirsi di schianto. Tre carabinieri seduti attorno a un tavolo lo guardano senza un gesto. La sentinella è in piedi, con la canna del mitra in mano, il calcio appoggiato a terra. Dice soltanto: "Ma no, ma no..." Mentre Valentino chiude la porta, Di Nanni e Bravin sono addosso agli altri che dormono nelle brande. "In piedi, in piedi!" intima Bravin puntando lo "sten." Nella casa di Via S. Bernardino, Ivaldi è vicino al letto sporco di sangue. Di Nanni sta adagiato su un fianco con gli occhi aperti. "Bravin e Valentino sono feriti?" mormora. "Si," risponde Ivaldi, "tutti e due, ora li avranno già presi." "Si, li avranno già presi." Ivaldi si muove zoppicando leggermente, prende una sedia vicino alla finestra e torna verso il letto. Si siede allungando la gamba e si tocca il polpaccio stretto nel fazzoletto annodato. "Anche tu sei ferito." "È niente," dice Ivaldi, "ora stai quieto, il dottore sarà qui a momenti." "Non serve a nulla parlare," mormora ancora Di Nanni, "non serve proprio a nulla." Ora sente molto male. Capisce che lo hanno colpito più volte, ma non sa dire quante. Fa per muoversi e Ivaldi lo costringe giù: "Fermo, sta' fermo. Se ti muovi è peggio." Si avvicina al ragazzo e cambia i tamponi di tela alle ferite. Usa asciugamani e strisce che ha ricavato lacerando un lenzuolo; il sangue e la camicia che Di Nanni indossa ancora gli impediscono di vedere le ferite. Gli preme molta tela contro tutta la schiena e vi appoggia i cuscini per impedire che le pezze scivolino via. "Fa molto male," dice Di Nanni, "e il dottore non potrà farci niente, proprio niente." "Il dottore è un compagno," risponde Ivaldi, "ed è proprio bravo. Ho detto a Barca di cercarlo e di mandarlo subito. Sono certo che sta già venendo qui e potrà fare molto: ti toglierà le schegge, ti medicherà e ti farà le iniezioni contro il dolore." "Non servirà a niente," dice Di Nanni, "è inutile che il dottore venga fin qui. E non dirmi che è una ferita da poco." Ivaldi raccoglie i tamponi zuppi di sangue e va a buttarli nel secchio in cucina. Quando torna Di Nanni lo fissa ancora. "Per te è andata bene e forse sarai vivo quando finirà." Di Nanni parla adagio, senza apparente fatica. "Io invece sarò già morto." "Non devi pensare a queste cose." "Le penso invece, le penso e le dico. Ci sarà una gran festa quando tutto sarà finito. Si potrà dormire e svegliarsi senza terrore." "Questo sarà anche per merito tuo." Ivaldi è vicino al letto e parla sottovoce, chinandosi in avanti. "Il merito sarà di tutti. Di quelli che saranno vivi e di quelli che saranno morti. Ma io


sarò morto e non mi importerà niente di avere qualche merito nella faccenda." Si appoggia a un gomito tentando di alzarsi. E Ivaldi deve fargli forza sul braccio per tenerlo adagiato, poi a sua volta si siede, serrandosi strette le mani. Dalla strada, attraverso i vetri della finestra chiusa, giunge l'eco di lontani rumori sovrastati dal respiro rapido e irregolare del ragazzo, di nuovo disteso su un fianco, il volto nascosto nell'arco del braccio. "Dovevamo ucciderli," mormora, "ucciderli tutti..." Lo aveva già detto dodici ore prima, quando tre carabinieri erano scappati mentre Bravin portava fuori i prigionieri. Avanzano lentamente perché il buio impedisce di distinguere i passi nella brughiera. Ma devono affrettarsi per passare sotto il ponte. "Dovevamo ucciderli." Di Nanni viene subito dietro Ivaldi e parla ad alta voce, con rabbia. "Zitto, non siamo assassini e poi non potevamo sparare. Te la sentivi di scannare nove uomini col coltello?" Ivaldi ha risposto girando appena la testa, senza fermarsi. "Dovevamo ucciderli subito," ripete Di Nanni. "Forse non sono corsi a dare l'allarme. Magari si sono nascosti nella brughiera, mentre minavano le antenne." "Sai bene che non è così," dice Di Nanni, "sai bene che adesso ci stanno aspettando." In quel momento intravedono nel buio, vicina, la linea dritta del ponte che sovrasta la loro strada. "Ce la facciamo. Ancora cinquanta metri." Non riesce a completare la frase: sul ponte, uno dopo l'altro, prima rossi e poi subito bianchissimi, si accendono tre riflettori. “Giù, giú," grida. E si butta nell'erba. I tre fasci di luce inquadrano la cabina della radio, la illuminano e poi ritornano, frugando il terreno. Uno arriva sopra i quattro uomini, appiattiti a terra, passa oltre e torna su di loro. Esplodono le prime raffiche. I proiettili battono intorno, nel cerchio del fascio di luce. Mentre altri riflettori li inquadrano, dalla stazione radio giunge l'eco della prima esplosione, fortissima, poi la seconda, la terza, la quarta. Dopo quegli scoppi, i colpi dei mitra sembrano ora piccoli sibili, rabbiosi però, più rabbiosi dopo le esplosioni. "Ci siamo cascati," urla Bravin. "Via di qui," grida Ivaldi. Balza in piedi e corre verso sinistra, poi avanti. Sono usciti dal cerchio accecante dei riflettori che ora si muovono a scatti, cercandoli. Ai mitra si sono unite anche le mitragliatrici, forse due, e le loro raffiche violente sovrastano i colpi secchi e intervallati dei fucili. Poi Ivaldi vede le lingue rossastre delle armi automatiche anche davanti a lui, nella radura, e capisce che i militi sono scesi a raggio nella brughiera e li stanno circondando. "Ce la faremo?" chiede Bravin. "Non so," risponde. Ivaldi si carica sulle spalle un paio di mitra. Voltandosi urta Valentino e ne approfitta per scaricare un po' della sua rabbia: "Non potresti fare a meno di cacciarti ogni momento fra i piedi?" "Inutile nasconderci ancora," grida. Spara una, due raffiche brevi e avanza allo sbaraglio. Sente sparare anche Di Nanni e gli altri. Si ferma ad aspettare Valentino: "Come ti senti?" gli chiede. "Niente, andiamo via, andiamo via subito." "Vieni dietro e continua a sparare." L'assurda irritazione ora ha ceduto il posto alla calma. Gli succedeva sempre, anche in Spagna, quando la battaglia era cominciata. Sopravvive chi ha fortuna e chi conserva la testa a posto. Sono in quattro ora, decisi a passare, a restituire colpo per colpo. La battaglia è diseguale ma la notte ci aiuta. Non ci hanno ancora presi. "Dovevamo ucciderli tutti," 


borbotta ancora Di Nanni. "E piantala." Bravin lo fa tacere. Devono fermarsi. I tedeschi scesi dal ponte sparano ora con rialzo a terra, nascosti nell'erba. In quella posizione è difficile colpirli. Possono distinguere le armi impiegate dal nemico, udire lo scatto dei bossoli sul terreno. Ivaldi si piega leggermente su un fianco, toglie una "sipe" dalla tasca, cerca con le dita i ganci della coppiglia e li raddrizza; poi passa l'indice nell'anello di tenuta, strappandolo. Sente la coppiglia scivolare fuori dolcemente; tiene stretta in pugno la bomba e la sottile lingua di metallo di sicurezza, poi la lascia scattare e la sente frullare vicino al viso. Si alza lanciando la "sipe" lontano e torna a buttarsi sull'erba. Mentre toglie la coppiglia ad un'altra bomba ode, fra le fucilate, il colpo sordo della prima e ne vede il rosso lampo. Lancia la seconda bomba, poi una terza. "Questo è il momento," grida levandosi di scatto. Corre avanti finché inciampa nel corpo di un tedesco e cade: si rialza con gli altri attorno che lo credono colpito. Adesso, dopo una lunga corsa, gli spari sono lontani. Si fermano. "Un minuto," chiede Bravin, "solo un minuto per riprendere fiato." "Ce l'abbiamo fatta," dice Valentino. "Forse," fa eco Di Nanni. Stanno in silenzio, in piedi, respirando veloci. Poi un fruscio tra l'erba e vedono di nuovo i lampi rapidi, davanti a loro. Di Nanni striscia carponi sulla loro sinistra e spara tutto un caricatore. Torna indietro sempre strisciando: "Via," dice, "via, mentre ci credono là." Corrono chini e si trovano davanti al fiume. "Siamo intrappolati," esclama Bravin. Il fuoco è cessato. Il silenzio sembra più pericoloso delle raffiche di mitra. Fanno alcuni metri, echeggia uno sparo isolato; qualcuno grida con voce incerta e sforzata; poi un secondo colpo e di nuovo un fuoco d'inferno. In quel momento Valentino grida. È pochi passi indietro e cerca affannosamente di rialzarsi. Bravin corre verso di lui, vacilla per una frazione di secondo, leva al cielo il mitra e cade anch'egli. Ivaldi torna indietro e si butta a terra accanto a Bravin mentre Di Nanni lo copre. "È toccato a me," dice Bravin, "inutile pensarci. Andate via subito, lasciatemi qualche caricatore. Non sento più le gambe. Mi sono toccato il ventre e mi ci è entrato il dito. Andate via." "E Valentino... " "Valentino resta qui. Ormai non può più andare da nessuna parte." Ivaldi tocca Valentino, lo scuote ed è come scuotere un sasso inerte. Poi torna presso Di Nanni che, acquattato, spara ancora. Sente che anche Bravin spara. Toglie la sicura dall'ultima "sipe" e si alza per lanciarla: un urto secco contro la gamba lo butta a terra. Lancia la bomba come può. Lo scoppio viene subito, vicinissimo. Si tocca il polpaccio pieno di sangue. Mentre Di Nanni grida frasi che non capisce, toglie il fazzoletto dalla tasca, solleva il pantalone, e cerca con le dita, fra il sangue. Lo trova subito: un piccolo foro, soltanto un piccolo foro. Lega il fazzoletto e si alza, aiutandosi con le mani. Prova a fare qualche passo, mentre attorno i colpi dei fucili paiono diradarsi. Si accorge all'improvviso che anche Di Nanni non spara più. Se lo carica in spalla e riprende la marcia. Andando, gli torna alla mente un episodio ormai lontano della sua vita di combattente in Spagna, quando lui, Ivaldi, era rimasto inerte nel furore della battaglia, accanto alla mitragliatrice, con le gambe paralizzate e qualcuno, un compagno, lo aveva salvato. La sua brigata, la brigata Garibaldi, decimata nella battaglia di Brunette, e 


rinsanguata negli effettivi era partita da Buccalora. La comandava Carlo Penchienati, in sostituzione di Pacciardi, rientrato in Francia dopo un vivace scontro col comando. Pacciardi aveva sostenuto la tesi d'inviare in licenza in Francia tutti i garibaldini affinché facessero opera di proselitismo e di reclutamento fra gli immigrati italiani. Era stato aspramente criticato dai comunisti i quali consideravano follia abbandonare la lotta proprio nel momento in cui la Spagna attraversava un periodo estremamente critico. I volontari garibaldini, coscienti dei sacrifici cui andavano incontro, li affrontavano senza mai tirarsi indietro; combattevano in Spagna il fascismo di Franco, di Mussolini, di Hitler. Purtroppo le tesi di Pacciardi avevano generato una certa atmosfera di sfiducia nei combattenti politicamente meno preparati. Quando io arrivai alla brigata, la riorganizzazione militare e morale era ormai compiuta. Accompagnato da Longo, Fedeli, Barontini arrivò tra noi Togliatti," calmo, sicuro di sé, persuasivo; infondeva sicurezza con la sua presenza. Disperse ogni superstite titubanza sulla necessità di continuare la lotta senza dar tregua al nemico. Verso la metà di agosto giunse l'ordine di partire per il fronte di Aragona. Salimmo sui camion sprovvisti di teloni una sera di pioggia. Avemmo una intera notte per bagnarci fino alle ossa e poi un giorno per asciugarci alla periferia di una borgatella ai piedi della collina. A sera ci mettemmo in marcia per campi bruciati, salendo e discendendo infiniti pendii. L'alba ci trovò tra monti rocciosi, accidentati, senza vegetazione. Il caldo diventava opprimente e nessuno aveva più una goccia d'acqua nella borraccia. Ogni tanto un breve riposo e poi la marcia riprendeva sotto il sole accecante. Qualcuno cominciava a chiedere acqua, qualche altro barcollava sotto il peso dello zaino e della mitragliatrice. Le staffette delle pattuglie avanzate non re-cavano notizia di ruscelli o di pozzi. In cima a una collina venne dato l'alt, per consumare il rancio che ognuno portava con sé. Era già trascorso da parecchio tempo il mezzogiorno ma nessuno mangiava. Riprendemmo la marcia. La terra scottava. Dalla lunga colonna cominciarono a levarsi imprecazioni: alcuni cadevano a terra svenuti, altri si trascinavano a fatica. I giovani non ce la facevano più; i combattenti più esperti zoppicavano e tacevano. Nel tardo pomeriggio un porta-ordini a cavallo consegnò una busta al comandante Raimondi. La prossima tappa sarebbe stata la cima della collina. Dalla vetta si vedeva una cascina e, sopra un altro cocuzzolo, un paese. Andai al comando di brigata per sollecitare l'invio di acqua. Vidi un gruppo di garibaldini ad una pozzanghera. Accorsi. Raimondi gridava: "Non bevete, è acqua stagnante, marcia. Forse è avvelenata. Non vedete i topi morti che ci sono dentro?" Mentre Raimondi tentava di allontanare gli uomini, mi gettai a terra e immersi la bocca nella melma ingoiando fango e acqua. Smisi un attimo per respirare e poi di nuovo giú. Anche gli altri si erano stesi attorno alla buca per bere. Raimondi si era chinato anche lui. Verso sera arrivarono finalmente le cisterne dell'acqua. Avevano viaggiato a lungo sotto il sole e l'acqua era tiepida e pulita. Ognuno bevve a lungo e si riempi la borraccia e anche qualche bottiglia. La notte ci accampammo ai piedi di una bassa collina dove all'alba prendemmo posizione. Era ancora buio. Alle otto, quando il sole


 era già alto, raffiche di mitragliatrice e colpi di mortai ci si abbatterono addosso. Eravamo sotto il tiro delle postazioni nemiche disseminate a breve distanza. Non ci restava che buttarci lungo i fianchi della collina, al riparo. Molti protestavano per l'errore in cui era incorso il comando facendoci attestare su una posizione dominata dal nemico. La nostra azione doveva far parte di una vasta manovra contro Saragozza, occupata dai franchisti. Premendo su Saragozza si poteva alleggerire l'offensiva fascista. Avevamo sbagliato strada e ora occupavamo un settore che non avrebbe potuto mai minacciare Saragozza. A mezza mattina, in una atmosfera di calma assoluta, si udì lontano il ronzio di un motore. Venne dato l'allarme. Gli addetti alle mitragliatrici antiaeree misero le armi in postazione. Era uno stormo nemico. Tre apparecchi deviarono verso di noi e ne vedemmo le ali d'argento brillare. Le mitragliatrici sparavano raffiche velocissime mentre gli aerei lanciavano grappoli di bombe. Esplosioni terrificanti. Una bomba scoppiò a pochi metri; venni buttato in aria e ricaddi sul terreno arido e duro. Gli aerei ritornarono per sganciare altre bombe, le mitragliatrici spararono di nuovo. Qualcuno gridò: "è colpito, è colpito!" Uno degli apparecchi si staccò dalla formazione e precipitò come un masso. Si apri un paracadute. Con un boato la carcassa dell'apparecchio si schiantò a metà collina e bruciò. Gli altri due aerei invertirono la rotta e spararono contro il pilota che stava scendendo dondolando sotto il grande ombrello bianco. Lo raccogliemmo ferito: era convinto che lo avremmo fucilato. "Ma sono i tuoi che ti hanno sparato!" ribatteva Malozzi. Era un ufficiale italiano; si era arruolato volontario perché gli avevano promesso una promozione. Lo spedimmo all'ospedale. Aspettammo fino a sera per spostarci lungo una vallata. I monti attorno erano occupati dai fascisti e dovemmo muoverci senza il minimo rumore per evitare di essere presi d'infilata in qualche gola buia. Camminammo durante la notte ripercorrendo sentieri già percorsi. Poco prima dell'alba una staffetta del comando ci guidò verso la posizione che da due giorni tentavamo invano di raggiungere: un terreno collinoso solcato da valloncelli. Il movimento di soldati e di carri armati era intensissimo. In lontananza si sentiva sparare. Il mio distaccamento venne dislocato sulla cima nuda di una collina in appoggio ai battaglioni franco-belga e "Rakosi." Davanti a noi si stendeva la pianura legger-mente ondulata e, in fondo, baluginanti nell'aria calda, si intravedevano le case di Saragozza. Eravamo completamente allo scoperto. Impiegammo parecchie ore per scavare le trincee, le postazioni per le mitragliatrici e per stabilire i collegamenti telefonici col comando. Ci trovammo proprio al centro di un cuneo avanzato; alla destra avevamo i franco-belgi, alla sinistra il battaglione Rakosi. Prima di mezzogiorno, aerei nemici ci individuarono e ci mitragliarono mentre l'artiglieria nemica apriva un fuoco d'inferno. Ancora una volta gli aerei scendevano a bassa quota a gruppi di tre. Erano "Caproni." Italiani dunque. Lo scoppio delle bombe lacerava la cima della collina squassando la terra e riempiendo l'aria di polvere. E dopo le prime bombe, altre bombe ancora. Le esplosioni spezzavano i timpani e il fumo ci impediva di scorgere se la fanteria nemica stava avanzando. Non restava che sparare alla cieca verso la pianura per contenere o ritardare una avanzata. Anche le 


posizioni dei due battaglioni al nostro fianco erano sottoposte ad un bombardamento incessante. Si trattava dunque di un'offensiva contro tutto il settore. Squillò il telefono. Il comandante ci avverti che stavano arrivando i nostri aerei da caccia. "Tenetevi aggrappati a quella collina, resistere a tutti i costi. Non ritiratevi senza ordine." Sulla nostra destra si era intanto accesa una furibonda battaglia. Attraverso il cannocchiale vidi avanzare contro il battaglione franco-belga la fanteria nemica protetta dai tanks e appoggiata dall'artiglieria che aveva intensificato il tiro mentre gli aerei continuavano a mitragliare a bassa quota. La situazione era critica. Gli shrapnells scoppiavano sotto le nostre teste seminando manciate di ferro sulle trincee. I feriti venivano portati via dagli infermieri. La linea telefonica era spezzata. Un porta-ordini che avevo inviato al comando non ritornò. Il sole scottava, eravamo coperti di sudore e di polvere. Strisciai sotto il grandinare delle bombe per invitare Cerbai a spostare la sua mitragliatrice in modo da prendere d'infilata i fascisti che avanzavano verso la nostra collina, protetti dai tanks. Cambiai di posizione anche ad un'altra mitragliatrice collocandola in una buca a sinistra. Ora i fascisti, strisciando anche loro, erano a cinquanta metri. Li vidi chiaramente sul filo del mirino e sparai; qualcuno rotolò lungo la china, altri si alzarono e corsero a ripararsi dietro i tanks che aprirono il fuoco coi cannoncini. I fascisti ci avevano individuati. Era impossibile muoversi e sarebbe stato impossibile resistere a lungo. Su ogni punto, su ogni metro di terreno, c'era uno scoppio e l'aria era piena di sibili e di proiettili. Inviai un'altra staffetta al comando per chiedere rinforzi: il garibaldino che stava scivolando fuori dalla trincea vi ricadde, colpito a morte. Eravamo tagliati fuori da ogni collegamento e non potevamo fare altro che resistere. Altri garibaldini vennero colpiti, molti giacevano morti in fondo alle buche, i feriti si lamentavano. Corsi da un punto all'altro delle posizioni su cui era disteso il distaccamento per rincuorare i compagni; incaricai due garibaldini di portare al riparo i feriti. Era una tempesta che tutto sconvolgeva, frantumava, riduceva a brandelli. Una mitragliatrice, centrata in pieno da una bomba, era ridotta a lamiera accartocciata; i corpi dei serventi erano stati dispersi dall'esplosione. Soldati del battaglione franco-belga si stavano ritirando. La resistenza della loro formazione era stata spezzata dal fuoco dell'artiglieria nemica. Io dovevo rimanere con il mio distaccamento. Questo era l'ordine. Le mitragliatrici che ci erano rimaste continuavano a sparare ma non potevamo fare molto contro i carri armati che venivano nuovamente avanti. Una scheggia uccise un giovane mitragliere spagnolo; un altro garibaldino ebbe il braccio destro stroncato netto da una granata; tentai di tamponargli il sangue che usciva dal-l'orrenda ferita ma non potei fare molto perché dovetti correre verso un'altra mitragliera che aveva smesso di sparare; il mitragliere era riverso sull'arma con il ventre squarciato; lo trascinai di fianco e cominciai a sgranare lunghe raffiche. Poi mi accorsi che dalla camicia mi usciva sangue: mi toccai il petto e sentii che c'era un buco, proprio sotto la spalla. Ora tra le esplosioni mi giungevano le grida dei compagni che stavano morendo. Uno mi chiamava: comandante, comandante! Allungò una mano verso di me: gliela strinsi, sentii la stretta


 aumentare, poi le due dita si afflosciarono: era morto; una scheggia gli aveva fracassato la testa. Era rimasta una sola mitragliatrice a sparare, quella di Cerbai che in mezzo ai morti e alla polvere continuava a prendere scrupolosamente la mira prima di lasciar partire una raffica. Mi trascinai di nuovo verso la mitragliatrice e un pesante pugno mi colpi alla schiena: una rosa di schegge mi aveva investito in pieno. Tentai di trascinarmi ancora, mi parve di avanzare e invece mi accorsi di non muovermi di un centimetro: è finita, mi dissi, tolsi la pistola dal fodero e pensai di uccidermi poi decisi di aspettare i fascisti con la pistola in pugno. Passati pochi secondi rinvenni: Cerbai era chinato sopra di me: "sono quasi morti tutti," disse, "dobbiamo andare via subito." Cercai di alzarmi e non riuscii a muovermi. Gridai che non avevo più le gambe, che se ne andasse da solo, che gli ordinavo di andare via. "Le hai ancora le gambe," gridò Cerbai, "devi solo fare uno sforzo." Mi sollevò di peso. Riuscii a stare in piedi ma non potei muovermi, forse la scheggia mi aveva leso la spina dorsale paralizzandomi le gambe. Ricaddi. Cerbai mi trascinò fino ad una buca e da lì, pochi centimetri alla volta, verso la cima della collina. Ci saranno stati soltanto venti metri da percorrere. Impiegammo molti minuti, nascosti dal fuoco delle bombe. Ora eravamo sul colle e Cerbai mi fece rotolare giù come un sacco; quando qualche asperità del terreno o un cespuglio mi fermava, mi trascinava oltre l'ostacolo e riprendeva a farmi rotolare. E continuò così fino ai piedi del colle. Quando i fascisti arrivarono sulla cima che avevamo lasciato, i garibaldini, attestati sulla vetta di fronte, li investirono, con un furioso fuoco costringendoli a ripararsi. Eravamo salvi. Nella casa di via S. Bernardino Ivaldi guarda, attraverso i vetri della finestra chiusa, la stretta via. Nessuno davanti ai portoni, nessuno alle finestre del caseggiato di fronte. Uno strano caseggiato, forse un convento, forse dentro vi sono dei frati, un posto sicuro, magari una infermeria attrezzata. Un luogo dove i fascisti non sarebbero mai entrati. Ivaldi sente Di Nanni muoversi e non si gira, continua a guardare la casa di mattoni rossi. "Arriva il medico?" Di Nanni ha parlato tranquillo e Ivaldi si volta, sorpreso. Il ragazzo sta seduto sul bordo del letto, i piedi appoggiati al pavimento. "Matto, sei matto, stai sdraiato." Lo aiuta a distendersi. "Non ti devi muovere." "Ho parlato proprio da matto, prima." "Hai detto quello che sentivi. Senti male?" "Adesso non lo direi più. Adesso voglio che arrivi il medico, voglio che mi curi, voglio che mi rimetta in piedi, perché abbiamo ancora molte cose da fare. C'è ancora molto da fare, vero?" "Si, molto da fare, per tutti." "Prima," dice Di Nanni, "non parlavo come dovrebbe parlare un comunista." "Un comunista è un uomo," dice Ivaldi, "niente altro che un uomo, fatto di muscoli, di nervi, di cervello, come gli altri." "Ma io non avrei dovuto sentirmi così disperato, anche se avevo tanto dolore addosso. Anche tu sei ferito, però non ti sei sentito come fossi già morto." "È diverso," dice Ivaldi. "Cosa è diverso?" "E' diverso perché un proiettile non è come cinque o dieci proiettili." "Vuoi dire che mi hanno colpito dieci volte? " "Non dico questo. Voglio dire che ti hanno colpito piú di una volta." Una pausa di silenzio. Poi Di Nanni torna a dire: "Mi sembra strano che si stia parlando di queste cose: che se ne parli così, quasi che non ci 


riguardassero." "Sono cose nostre," dice Ivaldi, "e dobbiamo parlarne." "Sono anche cose del partito," dice Di Nanni, "perché noi facciamo parte del partito." Ivaldi torna alla sua sedia, sedendo proprio sull'orlo; appoggiando la schiena alla spalliera, la gamba ferita tesa in avanti. Si toglie la scarpa e appoggia il tallone a terra. In questa posizione gli pare di sentire meno dolore. Guarda Di Nanni: il ragazzo sta semisdraiato; ha il volto molto pallido ma pare non soffrire. "Senti molto male?" chiede Ivaldi. "Non tanto. Prima mi sembrava di essere ubriaco e dicevo cose strane. Mi accorgevo di dirle, ma non riuscivo a tacere." "Qualche volta ci si sente così," dice Ivaldi. "Uno che fa la guerra non dovrebbe," dice Di Nanni. "Anche i soldati sono uomini." "Bravin era bravo. Non ha fatto discorsi. Anche Valentino era bravo." "Adesso siamo rimasti solo noi due." "Non siamo soli, ci sono tutti gli altri." In quel momento bussano. Ivaldi si alza, fa cenno a Di Nanni di tacere; toglie due mitra dall'armadio. Uno lo dà al ragazzo. Impugnando l'altro si avvicina alla porta, si copre ponendosi di lato, le spalle al muro e chiede chi bussa. "Sono Giorgio," risponde una voce sommessa, "vengo con le medicine." Ivaldi apre rapidamente e il medico entra. "Dov'è? " chiede. "Di là." Aiutato da Ivaldi, il medico spoglia il ragazzo. "Ho già messo l'acqua a scaldare," dice Ivaldi. Il medico assentisce e Ivaldi, zoppicando, va in cucina, toglie la pentola dalla debole fiamma del gas e la porta in camera, ponendola sulla sedia, vicino al letto. Poi porta un catino e un altro lenzuolo. Il medico lo lacera, ne fa grandi pezze quadrate e strisce lunghe un palmo. Prende con due dita una prima pezza per un angolo e la lascia scendere adagio adagio nell'acqua della pentola; poi la leva e l'appoggia ai bordi del catino perché si raffreddi un poco. Apre una borsa che ha portato, ne leva una siringa, una fiala e pratica una iniezione al ragazzo. Mette della garza sul comò e sopra vi ripone la siringa vuota. Poi, con la pezza bagnata comincia a pulire le ferite. Uno dopo l'altro si possono distinguere i fori dei proiettili. Piccoli bordi violacei: uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette piccoli fori alle gambe e alla pancia. Sette fori, sette pallottole. Esamina la testa e scopre un'altra ferita. Con un paio di forbici taglia i capelli tutt'attorno e pulisce ancora. Di Nanni geme adagio, ogni tanto. Quando le dita del medico indugiano sopra una ferita, soffoca un grido nel cuscino. Il medico riprende la siringa e fa un'altra iniezione. Attende un poco: con una pinza sottile fruga delicatamente uno dei piccoli buchi, poi un altro. Toglie dalla borsa un disinfettante, ne imbeve le pezze e le posa sulle ferite. Con le strisce fascia il ragazzo senza stringere. Fa una terza iniezione, rimette gli strumenti nella borsa e si avvia alla porta seguendo Ivaldi. "Anche tu sei ferito," dice. Ivaldi lo ferma. "Non è niente, non c'è tempo." "Fa' vedere." "Non c'è tempo, dimmi del ragazzo." "Brutte ferite," dice il medico, "deve essere operato subito. Bisogna portarlo in ospedale." "È pericoloso," dice Ivaldi. "Se lo lasciate qui morirà." Ivaldi torna nella stanza. Di Nanni sta steso sul ventre e pare assopito. Si muove appena, quando ode i passi. "Cosa ti ha detto?" "Che devi andare all'ospedale. Dovranno operarti per toglierti i proiettili." "In quale ospedale?" "Non so, ne parlerò coi compagni. Tra due ore incontrerò il responsabile del partito. Prima di allora non


c'è niente da fare." "E se mi vengono a cercare in ospedale?" "Ti porteremo dove ci sono dei compagni. Diremo che è stato un incidente in fabbrica." "Se viene il peggio, avvisa i miei," continua Di Nanni, "e nella casa dove abito cerca di Rossella. Avvisa anche lei." "È la tua ragazza?" "No. Ha solo sedici anni. Siamo d'accordo che diventerà la mia ragazza dopo, quando tutto sarà finito." "Se mi succede qualcosa," dice ancora Di Nanni, "devi dire tutto ai miei. Glielo dirai dopo, però. Dopo la guerra. Mia madre non deve credere che la colpa è tua perché mi venivi a prendere a casa. Devi dire che mi hai portato via, che mi hai nascosto in quella cascina, che sei tornato a prendermi e che mi hai portato qui." "Perché dovrei dirlo?" "Perché è vero e perché così sapranno che non sono stato abbandonato dai miei compagni. Prometti che lo dirai." "Te lo prometto," dice Ivaldi. Per un poco non parlano più. Poi Di Nanni domanda: "come faremo ad andare all'ospedale?" "Forse potremo usare un'autolettiga. Così sembrerà un incidente." "Verrai a trovarmi all'ospedale?" "Verranno altri compagni." "Però mi farai sapere quello che farete?" "Certo, ti farò sapere anche dei nuovi compagni che entreranno nella brigata." "Sarà difficile," dice Di Nanni, "ma qualche volta penso che sarà ancora più difficile quando sarà finito. Vorrei vivere per vederlo." "È un grande partito il nostro," dice Ivaldi. "Si, ed è grande perché ci sono dei giovani come te." "Il partito conta molto sui giovani, non è vero?" chiede Di Nanni. "Molto," risponde Ivaldi. "Anche per dopo," mormora quasi tra sé Di Nanni, "certamente anche per dopo, quando la guerra sarà finita e ci vorrà tanta forza per rimettere tutto in piedi." "Si," dice Ivaldi, "per oggi e per dopo." "Sai," dice Di Nanni, "a volte credo che sarà ancora più difficile dopo. Adesso non facciamo che sparare e sappiamo che per i fascisti tra poco sarà finita. Dopo sarà una lotta diversa, ugualmente impegnativa ma più lunga, certo molto difficile." "Il partito," risponde Ivaldi, "uscirà molto forte da questa battaglia. Oggi forma nuovi quadri per la lotta armata e questi uomini domani saranno dirigenti e militanti capaci di battersi in altre lotte magari pacifiche, ma ugualmente dure, ugualmente difficili. Ci vorranno infinite energie per creare un paese democratico, nuovo, diverso da quello che abbiamo conosciuto." "È strano," osserva allora Di Nanni, "che noi due, ora, senza neppure sapere se stasera saremo ancora vivi, si parli di cose che riguardano domani, un domani forse così lontano." "Non è strano," riprende ancora Ivaldi, "perché non parliamo soltanto per noi, parliamo anche per gli altri. E gli altri sono tanti, tutti quelli che come noi vogliono un paese diverso, nel quale si viva liberi." "Quando sarà finita con i fascisti e i tedeschi," chiede Di Nanni, "saremo veramente liberi?" "Saremo liberi di ricominciare a lottare per una vera libertà, che si ha quando ogni uomo ha e vale per quello che è." "Capisco," dice Di Nanni, "allora per questo tu dici che è molto importante quello che facciamo ora?" "È importante," dice Ivaldi, "soprattutto perché, se oggi non facessimo nulla, non ci sarebbe mai un domani da cui cominciare a cambiare veramente le cose." "Non sarei riuscito a spiegare bene tutto questo," dice Di Nanni, "però così lo sentivo: quello che dici per me non è nuovo, sono cose che ho sempre saputo." Vuole parlare ancora, anche se si sente molto debole, ma Ivaldi lo


costringe a tacere. Deve riposare per essere poi in grado di sopportare il viaggio. Quando il ragazzo sembra assopirsi, Ivaldi si alza dalla sedia e va in cucina. Prende dell'alcool, una forbice e una striscia di tela. Si siede a terra, la schiena appoggiata a una parete, piega un poco la gamba sinistra e tira su, adagio, il pantalone. Slega la fasciatura. Il polpaccio è gonfio ma non troppo. Il piccolo foro duole. Versa dell'alcool su un pezzo di tela comprimendolo sulla ferita: il bruciore gli riempie gli occhi di lacrime. Toglie la tela e il bruciore diminuisce. Ripete l'operazione diverse volte, fino a che la pezza si intride di sangue. Prende una pezza pulita, versa sopra altro alcool e l'appoggia alla ferita. Poi con una striscia fascia il polpaccio fin sopra il ginocchio. Si alza aiutandosi con le mani; getta pezze e fasce insanguinate nel secchio, chiude la bottiglia dell'alcool e torna in camera. Di Nanni non si è mosso, sta ancora sdraiato sul ventre e respira veloce. Ivaldi pensa che dorma e resta sorpreso quando l'ode chiedere: "Ti fa molto male?" Ora, nella casa di via San Bernardino, Di Nanni è solo. Ancora disteso sul letto, le braccia piegate, le mani strette sotto il cuscino. Ivaldi è uscito da poco. Hanno continuato a parlare, quando è tornato dalla cucina dove si è medicato. Sembra di avere una quantità di cose da dire, da spiegare, quando si sa di dover morire. Una guerra come la nostra non lascia molto tempo per le conversazioni. Si prepara l'azione, la si esegue: quando ci si incontra ogni minuto viene impiegato per le questioni pratiche, urgenti. Per la prima volta ci troviamo di fronte e possiamo parlare. Di noi, del perché combattiamo, del domani. Forse parlare del futuro cancella l'angoscia della fine vicina. O forse ci sono cose che dovevano essere dette da tempo e che ci diciamo ora. È appena un ragazzo, ma ha già tante cose dentro, tante idee e una certezza così ferma nel nostro futuro. Penso a me stesso, quando sono partito per la Spagna. I giovani di oggi maturano più rapidamente. Lo abbraccio piano prima di lasciarlo per andare a sollecitare l'autolettiga. "So cosa fare se vengono," ha detto Di Nanni e ha voluto accanto al letto i due mitra, lo "sten" e il sacco degli esplosivi con le micce a strappo già pronte e infilate nei detonatori. Ora giace immobile e aspetta. Chi giungerà prima: la lettiga o gli altri? Una serie di colpi violenti scuotono la porta. Gli altri sono giunti per primi. Si gira lentamente, s'appoggia con le mani al pavimento e scivola dal letto, battendo le ginocchia sulle piastrelle fredde. Si solleva sul gomito piegando la gamba sinistra sotto il corpo: prende un mitra e innesta un caricatore di quaranta colpi. Prima di uscire Ivaldi lo ha aiutato a infilarsi i pantaloni perché sia già pronto quando giungerà l'autolettiga; fa scivolare due "sipe" nella tasca destra, un'altra la tiene nella mano sinistra. Trascinandosi avanza verso la porta. Nella destra stringe il mitra. "Vengo," grida. "Aprite!" urlano dal pianerottolo. Di Nanni si schiaccia al muro, lascia il mitra, passa la "sipe" nella mano destra e toglie la coppiglia, tenendo salda la piccola leva piatta. Da fuori cercano ora di abbattere la porta a calci, ma è una porta di buon legno robusto, e resiste bene. "Apro," grida ancora Di Nanni. Si appoggia sulla sinistra tenendosi dietro lo stipite; lascia scattare la leva della bomba e conta: al "cinque" preme il pollice facendo scorrere la sbarra della serratura. La porta, spinta


dall'esterno si apre di schianto. Di Nanni lascia scivolare sul pianerottolo la bomba e si abbandona sulla schiena, al riparo della parete. Un secondo e all'esplosione nella tromba delle scale rispondono le urla dei colpiti. Un fascista, trascinato dallo slancio, piomba nell'anticamera e Di Nanni, restando sdraiato, ne blocca la corsa con una raffica breve, da tre metri. Il fascista sembra un attimo paralizzato, lascia cadere il mitra e barcollando arriva nella camera, finendo bocconi sul balcone. Strisciando sui gomiti Di Nanni si spinge sul pianerottolo, ingombro dei corpi di due fascisti. Appoggiando la fronte alla ringhiera, può vederne altri che scendono incespicando sui gradini. Infila la canna del mitra tra le sbarre e spara: li sente gridare e li vede cadere come dei sacchi vuoti. Si trascina nuovamente in casa e chiude la porta; questa non sembra danneggiata perché il battente era aperto al momento dell'esplosione. All'ingresso della stanza, sul pavimento, c'è il mitra del brigatista abbattuto. Di Nanni lo spinge, la canna in avanti, fino accanto al letto. Non cerca il corpo. Si trascina ancora attraverso la camera e, dalla cucina, spinge il tavolo contro la porta d'ingresso: poi sistema una doppia catena di sedie fra il tavolo e la parete; per colmare un ultimo spazio vuoto uno sgabello. Cosí la porta è completamente bloccata, quanto basta a fermare un po' gli invasori anche se facessero saltare la serratura. Più di così non può fare. Strisciando sotto il tavolo, torna in camera e si arrampica sul letto. Si sdraia sul ventre, di traverso ai materassi, in modo da avere il balcone in faccia. Può vedere un pezzo di inferriata, due finestre della casa di fronte, un poco di tetto. Il corpo del fascista è dietro la breve parete, sulla sinistra, nel vano della finestra, dove la ringhiera del balcone si aggancia al muro esterno. Lo indovina seduto o semisdraiato, con le ginocchia piegate: vede le scarpe uscire dall'angolo del muro. Nella casa sembra ora essersi fatto un gran silenzio. Forse non succederà altro, forse Ivaldi tornerà con l'autolettiga e andranno all'ospedale. Dalla strada non salgono rumori sospetti, niente che faccia temere un nuovo assalto. Non può accadere dunque nulla in quel silenzio. Però Ivaldi deve far presto perché non può resistere a lungo. Tocca le fasciature della schiena e le sente viscide. Guarda la mano e la vede sporca di sangue. Deve restare calmo, sopportare il dolore e non perdere altre forze. Le scarpe, all'angolo del balcone, hanno un sussulto, scivolano in avanti. Di Nanni capisce che il fascista sta morendo. Gli tornano alla mente racconti dell'altra guerra: italiani e austriaci feriti, isolati nella terra di nessuno, che riuscivano a capirsi a gesti per scambiarsi una sigaretta o un sorso di grappa, per maledire in lingue diverse ma con parole uguali la guerra e chi li aveva mandati a morire senza neppure sapere perché. Fissa quelle scarpe scivolate in avanti in una chiazza di sangue. La guerra combattuta da suo padre è stata una guerra diversa. Allora, i soldati si sono trovati una divisa addosso, un fucile in mano e l'ordine di sparare senza altre spiegazioni. In questa guerra ognuno ha fatto la sua scelta. Né a lui né all'altro hanno messo in mano un fucile senza spiegare perché. Ha scelto in piena coscienza la parte dove stare; e così è stato per il fascista sul balcone. Ognuno paga i debiti che ha contratto. Dalla strada giunge improvviso il rumore di un motore, poi alcune 


grida. Di Nanni capisce che è giunto il momento. L'autolettiga non arriverà più e lui non andrà all'ospedale, né da nessun'altra parte. Il motore si arresta davanti alla casa, proprio sotto il balcone, e tra i passi di molti uomini Di Nanni ode lanciare ordini incomprensibili. Grida anche una donna, di paura. Di Nanni la sente correre sull'asfalto invocando aiuto. Il secondo assalto forse sarà diverso. Ora la tattica migliore è di aspettare, perché questo li sconcerterà. Si attendono raffiche e bombe e stanno al riparo. Sparare non può servire. Adesso tocca a loro la prima mossa. Nella strada c'è un lungo silenzio, poi, con un forte accento tedesco, qualcuno grida: "scendere, arrendersi!" Passa altro tempo. Un secondo motore imbocca la via per fermarsi al portone. Una scala d'autopompa si avvicina alla ringhiera del balcone. Oscilla un poco, come in cerca di un punto d'appoggio e si ferma ben salda. Subito dopo riprende ad oscillare: qualcuno sta salendo. La stessa voce tedesca grida ancora: "prendere, prendere! un pazzo!" Di Nanni, bocconi sul letto, punta il mitra. Dal bordo del balcone spunta l'elmetto di un pompiere, poi il viso di un uomo già anziano. Pare esitare; getta uno sguardo perplesso al corpo del fascista e scruta nella stanza. Non vede Di Nanni e riprende a salire adagio, guardingo. Si china per dire qualcosa a uno che lo segue nella scala e che Di Nanni non vede ancora; poi scavalca la ringhiera dando un'altra occhiata al fascista senza avvicinarsi e vede il mitra puntato. L'altro che lo segue resta cavalcioni sulla ringhiera. "Andate via," dice Di Nanni, a voce bassa, calma, "non sono un pazzo. Sono un partigiano." I vigili del fuoco sembrano perplessi; il ragazzo col mitra sdraiato sul letto, sa quel che vuole. Il fascista morto insegna la lezione. Entrare e morire è una cosa sola. Il pazzo è chi rischia. "Non è matto," grida alla strada il secondo pompiere, ancora cavalcioni alla ringhiera, "non è matto!" Dalla via giungono altre frasi rabbiose, urlate. "Andate a prenderlo!" "Andate via," ripete Di Nanni, "non ce l'ho con voi." Il vigile del fuoco fa due passi indietro ed è di nuovo sul balcone. "E questo?" chiede indicando il morto. "Quello portatelo via," risponde Di Nanni. Se lo passano sopra la ringhiera. L'anziano fa ancora un cenno a Di Nanni — come per dire qualcosa — mentre scende. Ora tocca a lui muoversi: si cala dal letto e striscia fino al balcone; così appiattito a terra non possono vederlo dal basso. Ancora non hanno pensato a mandare qualcuno sul tetto della casa di fronte e sul campanile vicino. Di Nanni guarda sulla destra e vede la stretta via bloccata; un gruppo di tedeschi sbarra l'accesso a una piccola folla. A sinistra, la via è bloccata da fascisti. Anche là c'è gente, donne per lo più. Sotto, dove Di Nanni non può vedere, ci sono mescolati militari tedeschi e fascisti. Osserva attentamente finestre e facciate del convento dirimpetto. Tutto chiuso, sbarrato. Toglie la sicura a una "sipe" appoggiandola a terra. Poi toglie la sicura a una seconda bomba. Le spinge una dopo l'altra fra le sbarre della ringhiera. Ode le esplosioni e le urla. Guarda a sinistra. Le donne fuggono lasciando isolati i fascisti addosso al muro. Spara una raffica breve e una lunga. Tre fascisti cadono. Spara ancora contro gli altri che si sbandano in cerca di riparo e ne abbatte uno proprio all'angolo della via. Poi rincula strisciando e rimane sdraiato sulla soglia della portafinestra. Da là può


sorvegliare il tetto di fronte e il campanile. Passano pochi minuti, e lentamente, un elmetto spunta sopra l'angolo del tetto, poi appare il viso del tedesco. Mentre leva adagio il mitra vede un altro tedesco apparire nel vano della loggia campanaria. Cerca di inquadrare il nemico sul tetto, ma il mitra, contro la spalla sinistra, non sta fermo; appoggia allora il gomito destro al muro e mira di nuovo. Spara pochi colpi. Il viso del tedesco sparisce, scomposto. Di Nanni punta subito al campanile. Il secondo tedesco si mostra per una frazione di secondo, poi si abbassa, torna a mostrarsi e si abbassa di nuovo. Sembra un giocattolo meccanico. Di Nanni lo vede abbassarsi, attende pochi istanti e spara dentro l'apertura vuota: in quel momento il tedesco si alza e ricade urlando, mentre le campane colpite dalla raffica sembrano suonare a festa. Si trascina lontano dal muro. Ora tocca nuovamente a loro. E deve lasciarli fare, affinché credano di averlo in mano e tornino a mostrarsi. Si cala dietro l'angolo di sinistra della finestra e aspetta. Prima vengono dei colpi isolati: poi le raffiche di mitra. Sparano a lungo. Le schegge della finestra si staccano con un rumore secco. I colpi sparati dal basso, forse dai portoni di fronte, finiscono nel soffitto, staccando l'intonaco. Poi gli spari si diradano; le raffiche si fanno brevi e si spengono. Di Nanni attende ancora fino a che ode i primi colpi rintronare alla porta; allora si trascina attraverso la stanza. Dall'altra parte continuano a tempestare l'uscio barricato col tavolo e le sedie. Di Nanni punta il mitra appena sopra il tavolo. Tiene schiacciato il grilletto, mentre ruota l'arma da destra a sinistra, lentamente, poi ancora a destra. Si sentono urla e gemiti. Punta ancora, a livello del pavimento questa volta, e spara due ultime raffiche. Torna alla stanza e si mette in ascolto. Devono essere in molti attorno alla casa. Gridano ordini in tedesco e in italiano; ma le voci si sono allontanate oltre il fondo della via. Sono diventati prudenti e si tengono al coperto. Sparano di nuovo: colpi isolati e violente raffiche. Forse pensano di bloccare i suoi movimenti o forse sperano di colpirlo con un proiettile fortunato. Certo non può continuare a lungo in quel modo. Devono fare qualcosa di decisivo: tutto il quartiere è in allarme e la voce che trecento tedeschi e fascisti sono impegnati da due ore con forti perdite contro un solo partigiano, si va diffondendo. Devono fare qualcosa di nuovo e presto. Si ode il ringhiare di un grosso motore. Di Nanni striscia sul balcone, mentre anche dai tetti lontani si comincia a sparare, spia tra le sbarre sulla sinistra: un'autoblinda avanza lentamente, al centro della via stretta; la seguono curvi dieci o dodici tedeschi e fascisti. All'improvviso la canna della mitragliatrice che spunta dalla torretta comincia a sussultare. Di Nanni si rovescia lesto sul fianco e rotola nella stanza mentre i colpi schiantano gli spigoli del balcone e rimbalzano sulla ringhiera di ferro. Allora Di Nanni toglie cinque pezzi dal pacco di tritolo e li lega assieme con una striscia di tela; nel mezzo infila un detonatore con una miccia corta ad accensione a strappo e torna al balcone. La mitragliatrice tace; il ritmo del motore in folle indica che l'autoblinda è ferma sotto il balcone. Di Nanni svita il cappuccio dell'accensione e tira la cordicella, sente come il fruscio di un fiammifero sfregato contro un mattone, conta cinque secondi; butta il tritolo appena sopra la ringhiera.


L'esplosione viene immediata, tremenda; la casa trema tutta. Il motore dell'autoblinda si è arrestato. Qualcuno, rimasto dentro, cerca di rimetterlo in moto. Di Nanni torna ai piedi del letto, prepara altri due fasci di tritolo e, dal balcone, li lascia cadere senza contare perché sotto non c'è piú nessuno che possa spegnere le micce. Dopo le esplosioni, non si odono più né rumori né grida; tedeschi e fascisti devono essere disorientati. Stanno osservando, al riparo, l'autoblinda immobilizzata e i morti attorno; forse cominciano a dubitare di trovarsi di fronte a un solo partigiano. Di Nanni torna ancora verso il letto e con tutto l'esplosivo rimasto prepara altri pacchi, mette i detonatori e si sdraia supino. Dalla strada giunge una voce ingrandita e distorta dall'altoparlante: "Arrendetevi. Vi garantiamo salva la vita. Arrendetevi e sarete salvi." Poi qualcos'altro di incomprensibile. Il rotolare ferroso di cingoli sull'acciottolato annuncia l'arrivo di un carro armato. Avanza lentamente, ruotando la torretta col cannoncino, gli sportelli delle mitragliatrici aperti. Di Nanni attende che vengano sotto, affinché gli uomini nel carro non possano vedere il balcone dalle strette fessure della torretta. Allora accende le micce. Afferra con la destra i legacci e alzando il primo pacco d'esplosivo sopra la sua testa lo scaglia oltre la ringhiera, nella strada, davanti al carro armato. Poi lancia il secondo e il terzo. Chi guida vede certamente cadere i pacchi ma quando tenta di frenare è tardi; uno di essi esplode a un palmo da] cingolo destro che si spezza di schianto. Le altre due esplosioni completano il lavoro. Il carro comincia a girare su se stesso spinto dal cingolo intatto e finisce contro il muro della casa di fronte. Il motore si arresta e gli uomini escono cauti dallo sportello e si allontanano. Di Nanni non può vederli. Adesso ogni rumore è cessato. Un attimo di tregua, di pace prima della fine ormai vicina. L'esplosivo è terminato assieme alle " sipe." Nel caricatore del mitra restano sì e no venti colpi. Di Nanni toglie un proiettile e se lo mette in tasca, poi striscia di nuovo al balcone, pone il dito sul secondo grilletto del mitra, quello del colpo singolo e spia la strada. Da sinistra camminando curvi, rasenti il muro, avanzano tre tedeschi. Non portano fucili ma stringono in mano grappoli di bombe. Intendono usare la sua tattica: lanciare le bombe dal basso, dietro la porta-finestra del balcone. Prende la mira tra le sbarre e spara sul primo nazista che cade in avanti; il secondo colpo manca quello che lo segue, ma il terzo lo raggiunge subito dopo. Spara tre colpi all'ultimo che fugge. Il nazista cade, si rialza e riprende a correre zoppicando. Si salva buttandosi dietro l'angolo della via. In quel momento, dal tetto di fronte parte una raffica rapida e violenta. Un tedesco spara col ginocchio sinistro appoggiato alle tegole della sommità del tetto; non si nasconde. La sua raffica dovrebbe essere decisiva, ma passa alta sulla testa di Di Nanni che lo abbatte sparando a raffica i suoi ultimi colpi. Ora tirano dalla strada, dal campanile e dalle case più lontane. Gli sono addosso, non gli lasciano scampo. Di Nanni toglie di tasca l'ultima cartuccia, la innesta nel caricatore e arma il carrello. Il modo migliore di finirla sarebbe di appoggiare la canna del mitra sotto il mento, tirando il grilletto poi con il pollice. Forse a Di Nanni sembra una cosa ridicola; da ufficiale di carriera. E mentre attorno continuano a


sparare, si rovescia di nuovo sul ventre, punta il mitra al campanile e attende, al riparo dei colpi. Quando viene il momento mira con cura, come fosse a una gara di tiro. L'ultimo fascista cade fulminato col colpo. Adesso non c'è piú niente da fare: allora Di Nanni afferra le sbarre della ringhiera e con uno sforzo disperato si leva in piedi aspettando la raffica. Gli spari invece cessano sul tetto, nella strada, dalle finestre delle case, si vedono apparire uno alla volta, fascisti e tedeschi. Guardano il gappista che li aveva decimati e messi in fuga. Incerti e sconcertati, guardano il ragazzo coperto di sangue che li ha battuti. E non sparano. E in quell'attimo che Di Nanni si appoggia in avanti, premendo il ventre alla ringhiera e saluta col pugno alzato. Poi si getta di schianto con le braccia aperte, nella strada stretta, piena di silenzio.

"Gli anni e i decenni passeranno: i giorni duri e sublimi che noi viviamo oggi appariranno lontani, ma generazioni intere di giovani figli d'Italia si educheranno all'amore per il loro paese, all'amore per la libertà, allo spirito di devozione illimitata per la causa della redenzione umana sull'esempio dei mirabili garibaldini che scrivono oggi, col loro sangue rosso, le più belle pagine della storia italiana." (2) 

Note 
1. In seguito a quell'azione il comando tedesco anticipò il coprifuoco alle ore 20 e promise una taglia di 500.000 lire sui gappisti, ordinando inoltre l'arresto di cinquanta cittadini. 
2. Dall'opuscolo clandestino edito a Torino il 4 giugno 1944, "Alla gloria dell'eroe nazionale Dante Di Nanni."