venerdì 28 giugno 2013

Ilio Barontini, profugo, internazionalista, partigiano








Se fosse vissuto negli USA sicuramente sarebbe stato, anche suo malgrado, l’eroe in decine di films prodotti dall’industria hollywoodiana. Essendo semplicemente un cittadino italiano per di più comunista, è rimasto nella memoria di pochissima gente, forse anche di pochissimi suoi concittadini. Mi ricordavo di Ilio Barontini per aver visto, quando ero un ragazzino, un manifesto del PCI: un italiano schierato, con gli etiopi aggrediti, contro i fascisti italiani colonialisti aggressori. Ho sempre voluto approfondire la conoscenza della sua figura e delle sue esperienze fatte nei campi di battaglia di mezzo mondo. Purtroppo, Barontini non ha lasciato testimonianze scritte, la sua vita è stata stroncata prematuramente in un incidente stradale.

Su alcuni avvenimenti di cui è stato protagonista, restano le testimonianze di alcuni altri grandi uomini che l’hanno conosciuto e gli sono stati amici, anzitutto Giovanni Pesce comandante partigiano dei GAP (Gruppi d’Azione Patriottica) e Giorgio Amendola (dirigente partigiano e politico del PCI), che nei loro libri di storia e di memorie scrivono di lui e degli avvenimenti che lo hanno visto protagonista.


Il giornalista e scrittore Fabio Baldassarri su Ilio Barontini ha scritto alcuni libri biografici: (“Ilio Barontini: un garibaldino nel ‘900”  - Teti 2001), e il recentissimo: ("Ilio Barontini. Fuoriuscito, internazionalista e partigiano" - Robin 2013).


La gioventù


Ilio Barontini nasce a Cecina (Li) il 28 settembre del 1890, la sua famiglia di matrice politica anarchica gli permise di iniziare la sua attività politica da adolescente, a 13 anni già era un militante anarchico. qualche anno più tardi iniziò a lavorare come apprendista tornitore nei cantieri Orlando. Divenne socialista e aderì al gruppo dell’Ordine Nuovo fondato da Antonio Gramsci. Nel 1921, nel congresso di Livorno fu tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia del quale divenne il primo segretario della federazione livornese. Nello stesso periodo venne eletto anche segretario della Camera del Lavoro della CGIL della città di Livorno. Dopo la marcia fascista su Roma combatté contro le squadracce ma col fascismo dilagante nel 1923 venne arrestato e processato.
Barontini fuoriuscito in Francia

La fuga in Francia


Continuò a combattere il fascismo a Livorno fino a quando nel 1927 il Tribunale Speciale fascista gli inflisse 3 anni di prigione. Scappò allora avventurosamente a Bastia in Corsica con una barca a vela e riparò a Marsiglia in Francia dove continuò la militanza politica tra i profughi italiani.



L’URSS

Nel 1931 raggiunse l’Unione Sovietica dove all’inizio lavorò dirigendo da tecnico un reparto di un’azienda metallurgica. Ben presto iniziò a frequentare i centri di addestramento dell’Armata Rossa. A Mosca frequentò l’Accademia Militare “Michail Frunze” dove divenne ufficiale col grado di Maggiore.


La  Cina


Da Maggiore, andò in Cina unendosi all’Esercito popolare sotto la guida di Mao Tse-tung. In Cina approfondì le tecniche di guerriglia sperimentate e adottate dalle truppe maoiste.



Spagna

Quì sopra foto di gruppo per i garibaldini italiani volontari in Spagna. Tra loro comandanti militari e commissari politici. I due al centro sono (a sinistra con il giaccone bianco) Luigi Longo “Gallo”, poi comandante partigiano in Italia e segretario del Pci, e il dirigente comunista Ilio Barontini.
Nel 1936 mese di Luglio con “l‘Alzamiento” dei cuatro generales  fascisti: Francisco Franco, Emilio Mola, Gonzalo Queipo de Llano e José Enrique Varela, inizia la guerra civile in Spagna. Ilio Barontini fu chiamato a fare il commissario politico nella XII Brigata Garibaldi (composta da antifascisti italiani), che faceva parte delle Brigate Internazionali. Il comandante della Brigata era Randolfo Pacciardi  che nella battaglia di Guadalajara rimase ferito, Barontini così divenne Capo di Stato Maggiore della Brigata e si distinse come comandante a  Jarama, a Guadalajara e a Huesca. Di questo periodo possiamo citare la biografia su Barontini del Comune di Livorno “Allo scoppio della guerra civile spagnola è inizialmente incaricato di organizzare il trasferimento dei volontari attraverso la Francia. Giunge in Spagna nella seconda metà dell'ottobre 1936 arruolandosi nel Battaglione Garibaldi e, negli elenchi della base di Albacete, si registra col proprio nome ma come proveniente dal... Messico. Vale la pena di notare che Barontini solo qui cede al "peccato di orgoglio" di combattere per i suoi ideali internazionalisti adoperando la propria identità. Infatti, all'appellativo di "Baroni" usato nei primi anni francesi, farà seguire quello di "Fanti" in URSS, di "Jangas" al suo rientro a Parigi, "Paulus" con i partigiani etiopici, "Jobbe" o "Giobbe" quando tornerà in Francia e infine sarà "Dario" in Italia. Barontini è con Randolfo Pacciardi e Guido Picelli alla battaglia per la conquista di Mirabueno dal 4 all’8 gennaio 1937, nell’azione volta a bloccare l'attacco a Madrid dal Nord Est. Appena conquistato il monte Kataral, 20 chilometri oltre Guadalajara, viene riacquartierato a Madrid col Battaglione dei volontari italiani ed immediatamente ridislocato nella valle del fiume Jarama, dove l'intervento sarà decisivo per la riconquista del ponte di Arganda, in precedenza conquistato in una sanguinosa sorpresa dalle truppe marocchine. Durante questi combattimenti le schegge di un obice feriscono lievemente alla testa Pacciardi. Ilio assume allora anche il comando militare della formazione, benché leggermente ferito ad una spalla. E' lui, in sostituzione di Pacciardi, a guidare il Battaglione Garibaldi nelle incerte quanto esaltanti giornate della Battaglia di Guadalajara, fra l'8 e il 24 marzo 1937, con cui fu respinto un nuovo tentativo di attaccare Madrid. Barontini è calmo, non alza mai la voce. L'11 marzo schiera le truppe che fiancheggiano la strada di Brihuega, frenando l'avanzata dei fragili carri armati leggeri (non a caso soprannominati dai soldati “scatole di sardine”) del generale Mario Roatta che verranno ricacciati in disordinata fuga dai nuovi e più efficaci carri armati forniti dall'URSS. Nelle successive giornate tocca proprio a lui, toscano, inviare i garibaldini della 4a compagnia a fronteggiare il Battaglione fascista "Lupi di Toscana" che era riuscito ad occupare il fortificato Palacio de Ibarra, da dove verrà scacciato da un'azione coordinata fra le formazioni spagnole, due compagnie del Battaglione Garibaldi ed il Battaglione franco-belga della XI Brigata Internazionale. Nei primi giorni del maggio 1937, durante la repressione della sedizione anarchica a Barcellona, Ilio si pronuncia esplicitamente contro l'impiego degli "internazionali" ed è molto turbato dalle notizie che giungono sui "processi di Mosca". Nell'agosto dello stesso anno -come commissario politico del battaglione - vive la sconfortante operazione che avrebbe dovuto portare alla conquista di Saragozza, esauritasi con esiti strategici mediocri, errori sul campo ed ingiustificate perdite di combattenti. Ilio, rigoroso nell’esigere il rispetto della disciplina, è però attento agli aspetti umani ed al rispetto che ritiene dovuto ai volontari stremati dalla fatica e dai sacrifici. Questa consapevolezza lo porta ad urtarsi con i comandi militari superiori quando, il 24 settembre '37, dopo due ore di pioggia torrenziale, fa ritirare negli acquartieramenti di Pastelnou (regione di Teruel) le truppe schierate in attesa di una ispezione da parte del comandante del XII Corpo d'Armata spagnolo, Casado, che era in grave ritardo. Barontini, per placare le ire dei comandi, sebbene difeso da molti suoi compagni, viene richiamato in Francia. Si chiude così l'impegno di Barontini nella Guerra di Spagna”



Etiopia
Dopo la sconfitta delle forze democratiche in Spagna, nel 1938 il PCI d’accordo con la terza Internazionale, decise di aiutare le forze di resistenza al fascismo in Etiopia. Il futuro segretario generale della CGIL Giuseppe Di Vittorio, che era un dirigente del Comintern, decise di inviare in Etiopia in aiuto al Negus, assieme ad altri esponenti della IIIa Internazionale  un terzetto di comunisti Italiani: Ilio Barontini (Paulus), Anton Ukmar (Joannes), Domenico Rolla (Petrus) che divennero “i tre apostoli”. Su quegli avvenimenti Giovanni Pesce scrive: ”Il Negus dette a Barontini il ruolo di consulente del governo provvisorio alla macchia e il titolo di vice imperatore. Barontini e gli altri due 
“apostoli”, che agivano in zone diverse, predicavano l’unità delle razze e delle coscienze. Riuscirono ad infondere il senso del nazionalismo. Non era mai accaduto nell’Africa tribale. C’era una fame terribile anche allora, in Etiopia. Per non pesare sulle tribù, Barontini faceva mangiare ai partigiani i coccodrilli. Mi disse che erano abbastanza buoni». La polizia italiana seppe di Barontini?  «Presto si sparse la voce di questo capo bianco che dirigeva la resistenza. Misero una taglia sopra la sua testa. Seppero che era Barontini e fecero circolare la sua foto. Ma “Paulus” aveva una gran barba. Era irriconoscibile. Comunque andarono vicini alla sua cattura. Un capo tribù arrivò al comando di “Paulus” con i suoi uomini e chiese di entrare fra i partigiani. Poche ore dopo tentò di saltare addosso a “Paulus”, ma “Paulus”, che stava sempre in guardia e non dormiva due notti di seguito nel medesimo posto, evitò la tagliola e le suonò al traditore».  Anche qui ci sono degli italiani che combatterono contro gli italiani.  «Era la lotta del fascismo. Graziani non scherzava. Oggi è chiaro che la spedizione in Etiopia fu un errore, un dispendio inutile di vite, di capitali. Che poi gli italiani agli ordini di Graziani e quelli che scesero laggiù per lavorare, fossero quasi tutta brava gente, è un altro discorso. Tanto è vero che Barontini non volle mai che fosse torto un capello ai soldati italiani caduti prigionieri. E tu non hai idea di quanti italiani sono rimasti insabbiati nelle tribù, di loro volontà, dopo essere stati fatti prigionieri"

Il generale fascista Graziani, nonostante l’impiego abnorme di uomini e mezzi e purtroppo anche di armi non convenzionali, non riuscì a sottomettere del tutto l’Etiopia. Barontini, Rolla e Uckmar avevano un lasciapassare del Negus. Organizzarono in Abissinia un forte movimento partigiano e un governo provvisorio di patrioti, diffondendo in due lingue un giornale settimanale "La Voce degli Abissini". In seguito il Negus dette a Barontini il titolo di vice-imperatore. Ras Destà, rappresentante etiopico alla Società delle Nazioni, li accompagnò fino a Khartoum in Sudan. Graziani aveva messo una taglia sulla sua testa, ma lui riesce a sfuggire, a Khartoum è accolto dal generale inglese Alexander, dal quale sarà poi decorato. 



Ancora in Francia

Nel 1940, quando le truppe naziste la invasero all’inizio della seconda guerra mondiale, Barontini rientrò in Francia. Col nome di battaglia di "Giobbe" divenne capo di stato maggiore centrale dei gruppi di Francs-tireurs partisans, dei quali era stato tra i primi organizzatori. Ancora dalla biografia di Barontini del Comune di Livorno “Con la Francia di Petain in ginocchio davanti a Hitler, Barontini nell'estate del '40 si impegna nell'organizzazione dei maquis e da piccoli colpi con le rivoltelle passa ad azioni combinate tra i diversi gruppi con l'uso di bombe e dinamite. Giunto a Parigi, Barontini istruisce e guida piccoli gruppi della capitale ai quali insegna a produrre e usare le "bombe Jobbe", anche se la situazione della città rende estremamente rischioso operare. Ilio si sposta a Marsiglia alla metà del '41, dopo essersi salvato dalla prigionia in un campo di internamento tedesco grazie all’intervento del governo sovietico, poiché nella "zona libera" le condizioni per operare sono più agevoli. Quando i tedeschi estendono il loro controllo diretto anche al sud della Francia, Barontini diventa capo di stato maggiore dei Franc-tireurs et partisans français nel marsigliese e guida clamorose azioni di guerriglia tra cui l'attentato all'Hotel Terminus, residenza degli ufficiali nazisti”

La resistenza in Italia


Dopo l'8 settembre 1943, Ilio Barontini passò il confine italiano e fu inserito nel Comando generale delle Brigate Garibaldi  col suo nuovo pseudonimo "Dario". Come comandante delle brigate organizzò i GAP (Gruppi di Azione Patriottica) nelle regioni occupate dai nazifascisti. Dall'inizio del 1944 e sino alla Liberazione, Barontini fu alla testa del CUMER (Comando militare unificato Emilia-Romagna) e diresse i partigiani nei più importanti scontri col nemico (Porta Lame, Monte Forni, Modena). Il generale Harold Alexander (già conosciuto a Khartoum, durante la resistenza abissina ai colonialisti fascisti, e al quale Ras Destà aveva presentato "Paulus" come vice dell'imperatore Ailè Selassiè), lo decorò, nella Bologna liberata, con la Bronze Star Medal. Il sindaco di Bologna Dozza lo proclamò cittadino onorario. 

Il dopoguerra in Italia
Ilio Barontini "Dario" e Valter Audisio 
"Colonello Valerio" ad una 
sfilata di comandanti partigiani
Dopo la Liberazione, Ilio Barontini venne eletto deputato all’assemblea Costituente, e nella seconda Legislatura senatore della Repubblica per il collegio di Livorno. Nel PCI assunse l’incarico di segretario della Federazione di Livorno e di membro del Comitato centrale e della Direzione .

Ilio Barontini muore in un incidente stradale il 22 gennaio 1951 a Scandicci alle porte di Firenze assieme ad altri due membri della segreteria della federazione livornese del PCI Otello Frangioni e Leonardo Leonardi, mentre si recano nel capoluogo toscano alla celebrazione del 30° anniversario della fondazione del Partito Comunista Italiano.








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Etiopia. I guerrieri rasta e l’impero di latta
di Paolo Rumiz  da “La Repubblica” del 30 aprile 2006

 “Sì... c’era un italiano che ci insegnava a sfottere i fascisti... in italiano”. A riparlarne gli vien da ridere, al veterano etiope in divisa kaki. “Lui stava col nostro esercito, Paolo si chiamava. Me lo ricordo perché c’era la taglia col suo nome”. Che faceva? “Ci mandava di notte sotto le mura dei fortini, a gridare a squarciagola”. Cosa urlavate? “Le vostre mogli se la spassano con i gerarchiiii!”. E poi? “Gridavamo in eritreo, agli ascari collaborazionisti: le vostre se le fanno gli italianiiii!”. Abboccavano? “In cinque minuti scoppiava il pandemonio. I fascisti aprivano le porte e uscivano per farci la pelle. Noi scappavamo come lepri in una gola tra i monti. E lì c’era l’imboscata”. Comincia a sorpresa il nostro viaggio nella memoria, settant’anni dopo il 5 maggio del '36, quando Badoglio prese Addis Abeba e Mussolini annunciò il ritorno dell’impero romano. Gli ultimi testimoni vivi non ci sbattono in faccia le stragi fasciste. Non ci parlano dei gas, dei 700mila morti, dei pogrom, ma di misteriosi italiani nella resistenza etiope. Dell’ombra di Paolo che torna, ci chiama verso una collina piena di pioggia, oltre i palazzi coloniali, gli eucalipti nel vento, i lebbrosi, le ambasciate e le baracche di prostitute da mezzo euro al colpo. succede per caso, nel cimitero dei reduci, accanto alla chiesa dove dorme il Negus Hailè Selassiè, con un novantanne che va tra le tombe e racconta. La sua storia non lascia dubbi. L’ombra è quella di "Paulus", al secolo Ilio Barontini, da Cecina (Livorno), comunista italiano creduto francese - Paul Langlois - dalla polizia fascista. La memoria di questo Garibaldi del ventesimo secolo dimenticato dall’Italia vive ancora in Etiopia. "Aveva gli occhi folli" narra il veterano, sbarrando le pupille, come posseduto dal grande spirito. Ed evoca la leggenda clandestina del combattente di Spagna, Etiopia e Italia, che morì senza lasciar nulla di scritto. "Paulus" l’imprendibile, che insegna agli africani la guerra psicologica e l’uso delle mine, ciclostila giornali, obbliga le formazioni rivali a combattere unite, trasmette gli ordini del Negus. Nella pioggia che va verso i monti del Nilo Azzurro, tornano pezzi di memoria su questa guerra inutile e infame, inghiottita dalla cattiva coscienza di noi italiani "brava gente". Torna l’epopea dei fantastici vecchietti, ultimi cavalieri erranti dei grandi altopiani. Ci misero solo cinque anni a riprendersi il Paese, scalzi contro i cingolati e l’aviazione. Cinque anni, esatti come una cabala, fatali come una maledizione. Vinsero anch’essi il 5 di maggio, come annunciato dai loro indovini. Non era il '45 ma il '41; prima che le panzerdivisionen si impantanassero in Russia e gli alpini in Grecia. La macchina del nazifascismo si inceppò allora, davanti agli africani "razza inferiore". In Africa, si sa, non c’è confine tra la vita e il dopo. Il quartier generale dei Patrioti sta davanti al cimitero che li ospita da morti, e attende gli ultimi cinquantamila sopravvissuti della guerra italo-etiopica. Giovanotti tra gli ottanta e i novantacinque, barba argento e pellaccia dura color cuoio. I loro padri furono i primi africani a battere - nella guerra di Adua - un esercito coloniale europeo (il nostro). I loro antenati sconfissero arabi e turchi. E tutti tennero dritto nel cuore dell’Africa il vessillo della nazione cristiana più antica del mondo. Alemu Menghistu, 86 anni e sei figli, non ha di che mangiare. Ma ogni giorno si stira la divisa kaki per esserci, vestito come si deve, davanti alla sua Associazione. Lo invito a pranzo con due compagni d’arme. Mi benedice: "Dio ti ha mandato, sarai nelle nostre preghiere". Come i camerati, sa poco o niente della storia mondiale. Nessuno di loro sa di essere partigiano antifascista, di avere accelerato il ritorno della libertà nel pianeta. Gli basta di aver liberato il suo Paese. È uscito il sole, in una nube di vapore fluttua un popolo che va, con vacche, asinelli, capre. Nessuno litiga, nessuno grida, il rispetto dei vecchi è assoluto. L’Etiopia è uno struscio permanente di poveri che sorridono, e davanti a quel sorriso ti chiedi con che cuore abbiamo potuto prenderli a sprangate, avvelenarli, stuprare le loro donne. I reduci raccontano della fame nera, del cibo che non si cucinava per non dare segnali di fumo alla nostra aviazione, della selvaggia capigliatura rasta degli uomini da prima linea, dei mitici comandanti Nassibou, Ras Abebe, Ras Imru e Mulgheta. Chiedo: e oggi? "Che vuoi, amico. Non viviamo, non moriamo. Sopravviviamo". Eroi dimenticati, eppur privi della cupezza del reducismo di casa nostra. Non li ha sconfitti la guerra, ma la pace: il latrocinio dell’era globale, i massacri del comunista Menghistu, lo scontro fratricida con l’Eritrea, la corruzione, il colonialismo delle corporation mascherato da antiterrorismo. La città vecchia, un cuore mercantile che - prima di essere brevemente italiano - fu greco, ebraico e armeno. Chiese che sembrano sinagoghe, preti che cantano come muezzin, un immenso bazar di nome "Mercato", la piazza che si chiama "Piassa". Ovunque, nel bene e nel male, i segni della nostra presenza. Strade e palazzi, il bar Juventus, il monumento alle migliaia di etiopi massacrati nel pogrom - peggiore di dieci Marzabotto - ordinato dal proconsole Graziani come ritorsione per l’attentato che lo ferì nel '37. E di nuovo le tracce di un’altra Italia: quella che si ritrasse orripilata dalla politica del Fascio. L’università, gli archivi dell’Istituto di studi etiopici nell’ex palazzo del Negus, dove fu ospite Tito e Graziani fu sfiorato dalla bomba che scatenò la rappresaglia infame. Nell’ufficio che fu camera da letto dell’imperatrice, il professor Demeke Berhane mi apre una grossa busta. Sono i documenti lasciati da Alberto Imperiali, poco prima di morire, ottantenne, a Palombara Sabina (Roma) nel gennaio di quest’anno. Figlio di Cesare, un colono d’Etiopia che cooperò segretamente con la resistenza, Alberto si considerava etiope e non si fidava dell’Italia. Temeva che anche le sue carte finissero, come tante, nell’imbuto dello "scurdammece o’ passato". Così le ha spedite ad Addis Abeba. Foto impressionanti. Colonne di etiopi in fuga bombardate dall’aviazione. Lo storto, maledetto profilo dell’Amba Alagi e quello, a roccaforte, dell’Amba Aradam. Le cataste di corpi insanguinati dopo la rappresaglia Graziani, che convinse gli ultimi incerti a passare alla resistenza. E, ancora, centinaia di tukul messi a fuoco, nobili etiopi in partenza per la detenzione in Italia. Corpi di uomini e asini, uccisi dai gas vescicanti sulle sponde del lago Ashangi. L’abbattimento notturno della statua equestre del Menelik, vincitore ad Adua. La testa decapitata del Degiach Hilù, esibita da allegri italiani come un melone, insaccato in una trama di corde con l’impugnatura a treccia. "Sono stato amico di Imperiali", racconta Demeke. "Come suo padre, anche lui aiutò la resistenza etiope. Aveva un motociclo, e con quello scarrozzava i capi della guerriglia, Daniel Abebe Therson, Ras Abebe Aregai". Alberto, lo sanno in Italia i pochi che lo conobbero, come i venticinque soci dell’Associazione Exodus di Carmelo Crescenti, morì con la rabbia per una "vergogna nazionale rimossa" e col desiderio di sapere se i suoi compagni d’avventura fossero ancora vivi. Comunista scomodo, di parlata schietta, polemizzò con ex partigiani per quella che riteneva una conciliazione nazionale prematura. "Perché - diceva - mi invitate alle vostre rievocazioni? Io vi ho sparato contro". Un tè nel giardino di Richard Pankhurst, storico inglese ottantenne che - come il nostro Del Boca - lavora da una vita per scoperchiare il pentolone. "Non c’è mai stata una Norimberga - taglia corto - per i crimini dei fascisti in Etiopia. Eppure le evidenze ci sono. Terribili". Tira fuori altri nomi di italiani della resistenza. Antonio Uckmar detto "Johannes". Bruno Rolla detto "Petrus". Paolo De Bargili, che con Barontini raggiunse l’Etiopia via Khartoum subito dopo la guerra di Spagna. "C’era anche un siciliano, Saverio Sbriglio si chiamava. Era dottore, curava i feriti etiopi anche se le leggi razziali non lo consentivano. Quando i fascisti vennero per arrestarlo, si diede alla macchia con i ribelli, divenne il loro medico sulle montagne del Nordovest". Come mai se ne sa così poco? "Alcuni militari che furono teneri con gli etiopi - racconta Pankhurst - fecero una brutta fine. Vennero uccisi dai fascisti nei campi di prigionia inglesi dopo il 5 maggio del '41. Di un caso ho la documentazione". Altri soldati e camice nere furono rimpatriati prima: ragazzi che si ribellavano alle prepotenze razziali o si innamoravano delle "belle abissine". "Macché missione civilizzatrice, loro erano migliori di noi", diceva il friulano Giacomo Corona detto "Giarabub", che fino alla morte andò col cappello coloniale alla processione della Quaresima. "Il vero uomo nero eravamo noi", brontola ancora Carlo Cataldi da Bologna, anni 93, rimpatriato prima del termine. Anche allora c’erano, a fronteggiarsi, due Italie. Chiesa di San Tekle, assediata da mendicanti e bambini magri nelle pozzanghere. Dentro, c’è uno "slum" nel cimitero, morti e vivi che abitano assieme. Cerco i monaci, la storia del primo massacro di Debre Libanos, la città delle chiese dove Graziani passò per le armi cinquecento religiosi, rei di avere predetto la rapida fine dell’impero. Alto, ossuto e splendente, in una gran tunica bianca, padre Wolde Amanil, 82 anni, spiega che "se gli occupanti non avessero ucciso a quel modo, forse oggi ci sarebbe ancora l’Italia in Etiopia". Eravamo fratelli, aggiunge allargando le braccia, "ma è proprio tra fratelli che si litiga più duramente". Quella strage, lo dicono i numeri, fu all’altezza del peggior terrorismo islamista. Ma non ha mai sfiorato la nostra coscienza di cattolici. Ancora tombe e lebbrosi, lapidi e mendicanti, donne silenziose ed eucalipti strepitanti di uccelli come una foresta amazzonica. Il buco nella memoria si allarga. I vecchi se lo ricordano. Il 5 maggio '36 non fu affatto la fine della guerra. Cominciò, invece, la parte più feroce del conflitto. Gli italiani controllavano solo le strade, la resistenza continuava imperterrita. Mussolini era fuori di sé dalla rabbia, da Addis Abeba partivano ordini di rappresaglie contro i civili. L’uso dei gas continuò, anche se nei villaggi erano rimasti solo i vecchi, le donne e i bambini. Il monaco ci porta da un altro monaco, più vecchio di undici anni: padre Mengheshà. Veneratissimo, vive in una baracca piena di santini, candele, rosari, croci e cartoline. Narrano che anni fa andò in Italia invitato da altri etiopi, e quando entrò a San Pietro in Roma, una folla di fedeli, riconoscendone la santità, gli si strinse attorno con uno strepito tale che dovette intervenire il servizio d’ordine. Portamento da re, capelli rasta, occhi febbricitanti, tunica rossa, al contrario di padre Wolde il grande vecchio stava con gli italiani. E il Negus, al suo ritorno, lo sbatté in galera per otto anni in un sotterraneo. Ma con gli italiani il Negus non volle rappresaglie. Tornato sul trono, ordinò alla gente di non torcerci un capello. Anche di questo ci siamo dimenticati. "Mio padre ospitò trecento italiani e diede loro scorta nei giorni della sconfitta" racconta Daniel Jote Mesfin, un pezzo d’uomo, figlio del Ras Mesfin allora maggiore della guardia imperiale. Chiede come accedere ai nostri archivi, perché "qui non hanno conservato quasi niente di scritto". Capita che un etiope chieda a un ex nemico italiano di trovare notizie su questo o quel massacro. "Venga in Italia" gli dici, ma spesso lui non ha i soldi per pagarsi il viaggio. Così continua il gioco a nascondino con la memoria, e Roma se la cava con la stele di Axum, un bell’obelisco restituito. Dopo settant’anni, chissà che non arrivi il tempo di chiedere scusa. E rendere omaggio a un grande popolo fratello.

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